sei di vada se...

venerdì 2 settembre 2011

primo 2 di 3

La seconda parte del primo capitolo 
vada, da giugno a settembre, giorgio ariani, ordigno
Sbircio verso il tavolo, mentre Flipper continua ad esibirsi. Feo deve aver subodorato qualcosa e lo tiene a distanza di sicurezza. Sono fuori della sua portata. Il bello del gioco di squadra.
Lei parla sommessamente con il padre, poi con la madre. Non capisco che cosa si dicono, ma sembra che parlino in Italiano. Ha già finito la sua pizza. Chissà che gusti aveva scelto. “Secondo me Margherita: semplice, gustosa, essenziale. Tale e quale a lei.” Giocherella con le briciole sulla tovaglia, poi impugna il coltello come se fosse una penna e tormenta i pochi avanzi nel piatto. Alza la testa e guarda verso un punto che si trova dritto davanti a lei. Ma… Colpo di scena. Distoglie lo sguardo e si volta verso di me. Mi ha visto. Che faccio? Sorrido… Sorride. Evviva!!!
Un sorso di rosso Ferrari, un’olivetta con lo stuzzicadenti, una patatina. Mi appoggio alla vetrata con la spalla sinistra. Distoglie lo sguardo, lo faccio anch’io. I nostri occhi s’incontrano di nuovo poco dopo. Si era alzata per me, Feo non c’entra niente. Gongolo.
Ma cosa gongolo a fare? È con i genitori e non può trovare altre scuse per lasciarli. Oltretutto fuori del bar è arrivata quasi tutta la terza “A”, Feo è già uscito e stanno aspettando solo me. Flipper si è dileguato, è venuto giusto il tempo di rompere… le uova nel paniere.
La canzone è finita, il juke-box tace in attesa che un altro avventore sia disposto a scambiare le sue cento lire con un po’ di musica. Mi sa che devo andare. L’ultimo sorso e compio un passo indietro, per raggiungere il tavolo dove appoggio il bicchiere vuoto. Un accenno di saluto a Doriano che, da dietro il bancone, cordialmente ricambia con un sorriso e mi avvio verso l’uscita.
Passo abbastanza vicino al tavolo che m’interessa, uno sguardo, sollevo leggermente la mano per un ciao quasi impercettibile e ella, timidamente, accenna lo stesso gesto e sorride abbassando gli occhi. Che bello. Non mi sono azzardato a volgere lo sguardo verso i genitori e mi auguro che siano stati comprensivi. Una tenera emozione della durata di una canzone di Lucio Battisti. Un unico complice gesto ed un paio di sorrisi. Chissà se ci rivedremo ancora.
Mi butto nel mucchio della terza “A”. Saluti, pacche sulle spalle, baci e abbracci ci siamo proprio tutti: Nanni, Giorgio, Maura, Sonia, “Stecco”, Bruna, Fiorenza e tutti gli altri. La terza “A” al gran completo. Beh, proprio al completo-completo non direi. Manca il solito Alberto. Ritardatario cronico. Se istituissero l’Oscar per il ritardo sicuramente andrebbe in finale con concrete possibilità di vincerlo. La sua particolarità è di arrivare sempre in ritardo, non di molto, qualche minuto, ma sistematicamente. È una legge di vita, una caratteristica cromosomica, l’assioma della sua esistenza. Abbiamo provato a dargli appuntamento mezz’ora prima degli altri. È riuscito ad arrivare in ritardo lo stesso. Che fenomeno! Non vedo i professori, ma chi se ne importa, arriveranno e se non arrivano meglio.
Nel bailamme generale, lancio un occhio verso il pergolato, ma la bimba è di spalle, non mi può vedere. Come no, è girata verso di noi, forse attratta dagli schiamazzi e dal baccano: siamo campioni del mondo in questo. Mi sta guardando. La guancia è appoggiata sulla spalla ed i capelli quasi le coprono l’occhio sinistro. Che dolce. E chi la molla più? La siepe di pitosforo mi copre la vista dei genitori, meno male.
Mio malgrado, la corrente umana mi sopraffà come l’Arno nella piena del ’66 trascinò tragicamente verso il mare le suppellettili degli abitanti di Pisa e Firenze e l’amica siepe finisce col diventare nemica quando cela la fatina al mio sguardo. “È finita. Non la rivedrò più!” – penso tra me seguendo il flusso che mi trasporta verso il ristorante della Pensione Edy, il cui giardino confina con quello della pizzeria. In quei pochi metri di marciapiede è difficile pensare ad altro.
Irrompiamo fragorosamente nel giardino del ristorante, fortunatamente ancora deserto, ed avverto chiaramente sotto la suola di gomma delle scarpe, il simpatico scricchiolio della ghiaia che ricopre il vialino di accesso. Lo Zingaro, abbronzatissimo come al solito, ci viene incontro con la classica bandana variopinta annodata sulla testa rasata limitandosi ad un semplice ma efficace:
«…bimbi…», «…boni…».
Al lobo dell’orecchio sinistro risplende luminoso il piccolo immancabile brillante. L’onor del mento è un pizzetto brizzolato che conferisce alla faccia rotonda di Raimondo l’aspetto del più classico degli zingari. Sembra tolto dalla scenografia di un film. Un paio di pantaloni rossi, una camicia bianca aperta sul petto poco villoso, abbellita da un multicolore pappagallo dipinto sulla destra della pettorina ed un paio di sandali di cuoio costituiscono l’abbigliamento a dir poco casual del nostro anfitrione. I pantaloni, ovviamente, sono arrotolati fin poco sotto il ginocchio.
Mentre lo Zingaro cerca di controllare la situazione, arriva il corpo insegnante, anch’esso al completo. L’Italiano, la Matematica, il Latino, il Francese, ci ritornano minacciosi alla mente; per una sera cercavamo di toglierceli dalla testa, ma i prof sono qui a rammentarci quello che dobbiamo aspettarci di lì a qualche giorno.
La rossa d’Italiano non la sopporto, l’Italiano in genere non lo sopporto e lei non fa niente per rendermelo simpatico. Ho sempre affrontato il compito in classe d’Italiano come un calcio in uno stinco, un’operazione alle tonsille, un’estrazione dentaria; un crampo alla mano destra mi assaliva inevitabilmente davanti al foglio protocollo a righe. I titoli dei temi assumevano significati contraddittori. La scelta dell’argomento era lo scalino più grande: letteratura, fantasia, attualità? Inevitabilmente sceglievo un titolo, svolgevo il tema e, una volta giunto alle conclusioni, mi accorgevo che, se avessi scelto, a caso, uno degli altri argomenti, me la sarei cavata senz’altro meglio. Spesso partivo per la tangente, scrivevo e scrivevo, raccontavo e commentavo, analizzavo e giudicavo fino a riempire le quattro facciate del foglio protocollo compiacendomi nel rileggere il manoscritto, se non che, andando a rileggere il titolo, mi accorgevo di essere andato totalmente fuori tema. Una tragedia. Non meglio andava in Latino. Ma poi, dico io, perché dobbiamo andare a risvegliare una lingua in disuso da secoli e secoli. Orazio, Cicerone, Tito Livio: ma parliamo in italiano! Non riuscirò mai a capire l’utilità pratica di saper declinare i vari rosa-rosae-rosarum, vis-roboris o la differenza tra ipse ed idem. Al massimo potremmo utilizzare un’etcetera oppure un omissis. E per questo dobbiamo soffrire come cani quando sappiamo che in classe ci aspetta la versione di Latino?
Inutile insistere, le materie letterarie non fanno per me. Sono sempre riuscito ad ottenere magicamente il minimo indispensabile per essere promosso, ma non ho ancora capito per mezzo di quale arcano stratagemma.
Amore ed odio erano i sentimenti contrastanti tra me ed il Francese o, meglio, con la zitellona di Francese. Alternavamo periodi idilliaci durante i quali sarei potuto diventare l’estimatore più fanatico degli scritti di Prevert (ovviamente in lingua originale), a contrasti furibondi, come quando non riuscivo a farmi entrare nella zucca i tre pasti principali della giornata normale di una famiglia Francese. Per punizione la zoppa, perché aveva anche una gamba più corta, mi fece scrivere per cento volte il menù completo: da le petit dejeuner (la colazione) a le diner (la cena) senza dimenticare, le dejeuner (il pranzo) con i rispettivi cafè-au-lait, potage, poisson, jambon (caffelatte, zuppa, pesce, prosciutto) ed altre pietanze delle quali feci una calligrafa indigestione.
Matematica, invece, faceva al caso mio. Ha da sempre fatto parte del mio bagaglio genetico. Con occhi dolci, la prof, c’intendevamo alla perfezione: una complice occhiata era spesso più che sufficiente. Bionda, occhi azzurri, piuttosto giovane, fisico minuto, di solito ben vestita, leggermente truccata: un bijoux. Chissà perché, ma le insegnanti di Matematica sono generalmente piuttosto attraenti! Ad ogni spiegazione espressioni, equazioni, sistemi di primo e secondo grado, uscivano dalle sue dita attraverso il gesso, si trasferivano sulla lavagna e la mia materia grigia se ne appropriava senza difficoltà di sorta. Riuscivo ad arrotondare le radici quadrate, a raddrizzare una linea spezzata e persino a rendere perspicace un angolo ottuso. Pitagora, Euclide, Eulero mi facevano un baffo. Era innegabile il mio interesse per tutto ciò che aveva a che fare con i numeri.
Il resto era tutto uno svago. Un artista vero, con tanto di scultura del Cristo in Croce vicino all’altare della chiesa, c’impartiva lezioni di Disegno e Educazione Artistica. Un capace creativo c’insegnava le Applicazioni Tecniche, un pianista cieco, le scale musicali, mentre l’Educazione Fisica e quella Religiosa erano lasciate praticamente al caso.
Il condensato di tutto ciò si riunirà, tra breve, attorno al tavolo nell’attesa che lo Zingaro somministri le portate di un menù fisso stabilito al momento della prenotazione.
Lo Zingaro ha pensato bene di riservarci un lungo tavolo ad angolo retto vicino alla siepe che separa il giardino del ristorante da quello della pizzeria di Doriano. Probabilmente ha reputato la zona meno rischiosa per gli altri avventori nel caso di eventuali nostre incontrollabili sortite.


…continua