La seconda parte
del primo capitolo
Sbircio verso il
tavolo, mentre Flipper continua ad esibirsi. Feo deve aver subodorato qualcosa e
lo tiene a distanza di sicurezza. Sono fuori della sua portata. Il bello del
gioco di squadra.
Lei parla sommessamente
con il padre, poi con la madre. Non capisco che cosa si dicono, ma sembra che
parlino in Italiano. Ha già finito la sua pizza. Chissà che gusti aveva scelto.
“Secondo me Margherita: semplice, gustosa, essenziale. Tale e quale a lei.”
Giocherella con le briciole sulla tovaglia, poi impugna il coltello come se
fosse una penna e tormenta i pochi avanzi nel piatto. Alza la testa e guarda
verso un punto che si trova dritto davanti a lei. Ma… Colpo di scena. Distoglie
lo sguardo e si volta verso di me. Mi ha visto. Che faccio? Sorrido… Sorride.
Evviva!!!
Un sorso di rosso
Ferrari, un’olivetta con lo stuzzicadenti, una patatina. Mi appoggio alla
vetrata con la spalla sinistra. Distoglie lo sguardo, lo faccio anch’io. I
nostri occhi s’incontrano di nuovo poco dopo. Si era alzata per me, Feo non
c’entra niente. Gongolo.
Ma cosa gongolo a fare?
È con i genitori e non può trovare altre scuse per lasciarli. Oltretutto fuori
del bar è arrivata quasi tutta la terza “A”, Feo è già uscito e stanno
aspettando solo me. Flipper si è dileguato, è venuto giusto il tempo di rompere…
le uova nel paniere.
La canzone è finita, il
juke-box tace in attesa che un altro avventore sia disposto a scambiare le sue
cento lire con un po’ di musica. Mi sa che devo andare. L’ultimo sorso e compio
un passo indietro, per raggiungere il tavolo dove appoggio il bicchiere vuoto.
Un accenno di saluto a Doriano che, da dietro il bancone, cordialmente ricambia
con un sorriso e mi avvio verso l’uscita.
Passo abbastanza vicino
al tavolo che m’interessa, uno sguardo, sollevo leggermente la mano per un ciao
quasi impercettibile e ella, timidamente, accenna lo stesso gesto e sorride
abbassando gli occhi. Che bello. Non mi sono azzardato a volgere lo sguardo
verso i genitori e mi auguro che siano stati comprensivi. Una tenera emozione
della durata di una canzone di Lucio Battisti. Un unico complice gesto ed un
paio di sorrisi. Chissà se ci rivedremo ancora.
Mi butto nel mucchio
della terza “A”. Saluti, pacche sulle spalle, baci e abbracci ci siamo proprio
tutti: Nanni, Giorgio, Maura, Sonia, “Stecco”, Bruna, Fiorenza e tutti gli
altri. La terza “A” al gran completo. Beh, proprio al completo-completo non
direi. Manca il solito Alberto. Ritardatario cronico. Se istituissero l’Oscar
per il ritardo sicuramente andrebbe in finale con concrete possibilità di
vincerlo. La sua particolarità è di arrivare sempre in ritardo, non di molto,
qualche minuto, ma sistematicamente. È una legge di vita, una caratteristica
cromosomica, l’assioma della sua esistenza. Abbiamo provato a dargli
appuntamento mezz’ora prima degli altri. È riuscito ad arrivare in ritardo lo
stesso. Che fenomeno! Non vedo i professori, ma chi se ne importa, arriveranno e
se non arrivano meglio.
Nel bailamme generale,
lancio un occhio verso il pergolato, ma la bimba è di spalle, non mi può vedere.
Come no, è girata verso di noi, forse attratta dagli schiamazzi e dal baccano:
siamo campioni del mondo in questo. Mi sta guardando. La guancia è appoggiata
sulla spalla ed i capelli quasi le coprono l’occhio sinistro. Che dolce. E chi
la molla più? La siepe di pitosforo mi copre la vista dei genitori, meno
male.
Mio malgrado, la
corrente umana mi sopraffà come l’Arno nella piena del ’66 trascinò tragicamente
verso il mare le suppellettili degli abitanti di Pisa e Firenze e l’amica siepe
finisce col diventare nemica quando cela la fatina al mio sguardo. “È finita.
Non la rivedrò più!” – penso tra me seguendo il flusso che mi trasporta verso il
ristorante della Pensione Edy, il
cui giardino confina con quello della pizzeria. In quei pochi metri di
marciapiede è difficile pensare ad altro.
Irrompiamo
fragorosamente nel giardino del ristorante, fortunatamente ancora deserto, ed
avverto chiaramente sotto la suola di gomma delle scarpe, il simpatico
scricchiolio della ghiaia che ricopre il vialino di accesso. Lo Zingaro,
abbronzatissimo come al solito, ci viene incontro con la classica bandana
variopinta annodata sulla testa rasata limitandosi ad un semplice ma
efficace:
«…bimbi…»,
«…boni…».
Al lobo dell’orecchio
sinistro risplende luminoso il piccolo immancabile brillante. L’onor del mento è
un pizzetto brizzolato che conferisce alla faccia rotonda di Raimondo l’aspetto
del più classico degli zingari. Sembra tolto dalla scenografia di un film. Un
paio di pantaloni rossi, una camicia bianca aperta sul petto poco villoso,
abbellita da un multicolore pappagallo dipinto sulla destra della pettorina ed
un paio di sandali di cuoio costituiscono l’abbigliamento a dir poco casual del
nostro anfitrione. I pantaloni, ovviamente, sono arrotolati fin poco sotto il
ginocchio.
Mentre lo Zingaro cerca
di controllare la situazione, arriva il corpo insegnante, anch’esso al completo.
L’Italiano, la Matematica, il Latino, il Francese, ci ritornano minacciosi alla
mente; per una sera cercavamo di toglierceli dalla testa, ma i prof sono qui a
rammentarci quello che dobbiamo aspettarci di lì a qualche giorno.
La rossa d’Italiano non
la sopporto, l’Italiano in genere non lo sopporto e lei non fa niente per
rendermelo simpatico. Ho sempre affrontato il compito in classe d’Italiano come
un calcio in uno stinco, un’operazione alle tonsille, un’estrazione dentaria; un
crampo alla mano destra mi assaliva inevitabilmente davanti al foglio protocollo
a righe. I titoli dei temi assumevano significati contraddittori. La scelta
dell’argomento era lo scalino più grande: letteratura, fantasia, attualità?
Inevitabilmente sceglievo un titolo, svolgevo il tema e, una volta giunto alle
conclusioni, mi accorgevo che, se avessi scelto, a caso, uno degli altri
argomenti, me la sarei cavata senz’altro meglio. Spesso partivo per la tangente,
scrivevo e scrivevo, raccontavo e commentavo, analizzavo e giudicavo fino a
riempire le quattro facciate del foglio protocollo compiacendomi nel rileggere
il manoscritto, se non che, andando a rileggere il titolo, mi accorgevo di
essere andato totalmente fuori tema. Una tragedia. Non meglio andava in Latino.
Ma poi, dico io, perché dobbiamo andare a risvegliare una lingua in disuso da
secoli e secoli. Orazio, Cicerone, Tito Livio: ma parliamo in italiano! Non
riuscirò mai a capire l’utilità pratica di saper declinare i vari rosa-rosae-rosarum, vis-roboris o la differenza tra ipse ed idem. Al massimo potremmo utilizzare
un’etcetera oppure un omissis. E per questo dobbiamo soffrire
come cani quando sappiamo che in classe ci aspetta la versione di
Latino?
Inutile insistere, le
materie letterarie non fanno per me. Sono sempre riuscito ad ottenere
magicamente il minimo indispensabile per essere promosso, ma non ho ancora
capito per mezzo di quale arcano stratagemma.
Amore ed odio erano i
sentimenti contrastanti tra me ed il Francese o, meglio, con la zitellona di
Francese. Alternavamo periodi idilliaci durante i quali sarei potuto diventare
l’estimatore più fanatico degli scritti di Prevert (ovviamente in lingua
originale), a contrasti furibondi, come quando non riuscivo a farmi entrare
nella zucca i tre pasti principali della giornata normale di una famiglia
Francese. Per punizione la zoppa, perché aveva anche una gamba più corta, mi
fece scrivere per cento volte il menù completo: da le petit dejeuner (la colazione) a le diner (la cena) senza dimenticare,
le dejeuner (il pranzo) con i
rispettivi cafè-au-lait, potage, poisson, jambon (caffelatte, zuppa,
pesce, prosciutto) ed altre pietanze delle quali feci una calligrafa
indigestione.
Matematica, invece,
faceva al caso mio. Ha da sempre fatto parte del mio bagaglio genetico. Con
occhi dolci, la prof, c’intendevamo alla perfezione: una complice occhiata era
spesso più che sufficiente. Bionda, occhi azzurri, piuttosto giovane, fisico
minuto, di solito ben vestita, leggermente truccata: un bijoux. Chissà perché,
ma le insegnanti di Matematica sono generalmente piuttosto attraenti! Ad ogni
spiegazione espressioni, equazioni, sistemi di primo e secondo grado, uscivano
dalle sue dita attraverso il gesso, si trasferivano sulla lavagna e la mia
materia grigia se ne appropriava senza difficoltà di sorta. Riuscivo ad
arrotondare le radici quadrate, a raddrizzare una linea spezzata e persino a
rendere perspicace un angolo ottuso. Pitagora, Euclide, Eulero mi facevano un
baffo. Era innegabile il mio interesse per tutto ciò che aveva a che fare con i
numeri.
Il resto era tutto uno
svago. Un artista vero, con tanto di scultura del Cristo in Croce vicino
all’altare della chiesa, c’impartiva lezioni di Disegno e Educazione Artistica.
Un capace creativo c’insegnava le Applicazioni Tecniche, un pianista cieco, le
scale musicali, mentre l’Educazione Fisica e quella Religiosa erano lasciate
praticamente al caso.
Il condensato di tutto
ciò si riunirà, tra breve, attorno al tavolo nell’attesa che lo Zingaro
somministri le portate di un menù fisso stabilito al momento della
prenotazione.
Lo
Zingaro ha pensato bene di riservarci un lungo tavolo ad angolo retto vicino
alla siepe che separa il giardino del ristorante da quello della pizzeria di
Doriano. Probabilmente ha reputato la zona meno rischiosa per gli altri
avventori nel caso di eventuali nostre incontrollabili
sortite.
…continua
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