l’ultima
parte del primo capitolo
Ci appropinquiamo alla zona ristorante, la cui copertura è
assicurata da un’ampia tenda rosa-salmone sorretta da una robusta intelaiatura
d’alluminio anodizzato. La mantovana esterna riporta, a caratteri cubitali blu,
il nome della pensione adiacente. Tovaglie celesti coprono i tavoli
apparecchiati con tovaglioli dello stesso colore, candidi piatti con la stampa
del nome della pensione, splendenti calici e luccicanti posate d’acciaio.
Immancabili, al centro d’ogni tavolo, trovano posto il cestino di vimini con le
buste dei grissini e la saliera in vetro e acciaio, con tanto di stuzzicadenti
Samurai. Oltre la porta a vetri,
che separa il giardino dai locali interni, posate, piatti e bicchieri attendono,
sopra ad un mobiletto, il loro turno nel rimpiazzare le stoviglie sporche nel
prosieguo della cena. Nella penombra s’intravede la Reception, come lo chiama lo Zingaro,
con tanto di bancone in legno laccato bianco in stile non identificato,
citofono, pannello delle chiavi delle camere, non più di una dozzina, ed un
classico campanello, in lucidissimo ottone, per richiamare l’attenzione del
portiere nel caso fosse assente. Sul pannello delle chiavi, spiccano portachiavi
al limite dell’inverosimile: campane di un abbagliante rosso rubino di
dimensioni assolutamente sproporzionate, sul fondo delle quali è riportato il
numero della camera rosso su sfondo blu. La chiave in lega d’acciaio è appena
visibile, al cospetto di cotanto accessorio e, se il peso rispecchia le
dimensioni, sfido chiunque a dimenticarsi di consegnare il tutto al portiere,
prima di uscire dall’albergo. Una passatoia rosso scuro bordata di beige, tesa
alle estremità da sbarre d’ottone lucidissimo, completa l’arredamento della Reception ed accompagna i clienti fino
alle scale che portano ai piani superiori e, quindi, alle camere.
Nel clamore generale arriva il ritardatario Alberto,
biondissimo, alto, discretamente agghindato: è apparentemente trafelato, ma a
noi non la fa, sappiamo tutti che si tratta di una posa per giustificare il
ritardo.
Ora siamo veramente al completo. Prima di accomodarmi ho il
tempo di un’altra sbirciata verso il tavolo della confinante pizzeria. Allungo
invano il collo oltre la siepe divisoria. Intravedo una testolina bruna, ma non
è più tempo. Feo si aggrappa alla mia camicia tirandomi giù e cado seduto
sull’impagliatura della sedia di legno, mentre lui prende posto alla mia destra
e Franco a sinistra. Sono di fronte a Fiorenza che parla, come al solito, come
un vecchio disco incantato sul solito microsolco. Sonia, alla sua sinistra, ha
già dato segni di scoramento. E siamo solo all’inizio.
I professori si accomodano compostamente ad un capo del tavolo
con quello di Applicazioni Tecniche che fa il cascamorto con occhi dolci di
Matematica: la precede nella marcia di avvicinamento al tavolo, la invita a
sedere con un gesto della mano sinistra, le sposta la sedia e poi la fa
accomodare prendendo a sua volta posto inesorabilmente di fronte a lei. Il prof
di Disegno, il più anziano, lo guarda di straforo, al di sotto delle folte
sopracciglia grigie, poi si accorge che anche noi abbiamo notato il tentativo
d’approccio, si volta verso di noi, un accenno di sorriso a bocca storta, ci fa
l’occhiolino e poi dondola leggermente la testa, con fare compassionevole,
all’indirizzo dell’improbabile gigolo. Si siede nei paraggi, ma in
cuor suo vorrebbe venire vicino a noi. È il più forte di tutti, come al solito.
Nelle immediate vicinanze dei professori, ovviamente, siedono le immancabili cocche, quelle del primo banco, quelle
che alzano sempre la mano, quelle che finiscono il compito sempre per prime e te
lo fanno pesare con un sospiro, con il quale accompagnano il clic del cappuccio
che serra l’inseparabile penna stilografica. La penna stilografica. E chi la usa
più, la penna stilografica. Non è pratica, macchia, è facile a rompersi, devi
avere a portate di mano la cartuccia di ricambio perché l’inchiostro finisce
sempre nel momento meno adatto, consuma nero di china come una Formula uno in
prova al circuito del Mugello. Ma perché, negli anni settanta, esiste ancora
qualcuno che usa la stilografica? Per far colpo sui professori, è ovvio: bella
calligrafia, maiuscole arricciolate, ombreggiature e miniature da frate
Certosino. Io sono un accanito estimatore della fedelissima nonché affidabile
Bic blu, con tanto di cappuccio
morsicato, fedele compagna delle vicissitudini scolastiche di molti come me. Nel
bene e nel male. Un colpo d’incisivi ben assestato al piccolo cappuccio
posteriore ed eccola trasformata nella più micidiale arma delle aule scolastiche
del dopoguerra: una cerbottana a pallini di carta rigorosamente ciucciati e
masticati. Bersagli preferiti: il crocifisso, il calendario di Frate Indovino,
il lampadario, la nuca di quei ruffiani del primo banco e la lavagna, ma solo
nel caso in cui ci sia graficamente rappresentato qualcosa che assomigli, anche
vagamente, ad un bersaglio.
Siamo, finalmente, tutti seduti e piuttosto ordinati, direi. Al
contrario del solito, con i ragazzi da una parte e le ragazze dall’altra in
gruppi ben distinti, questa sera, al nostro tavolo, non è stato rispettato alcun
ordine del genere. Siamo una classe mista e come tale ci siamo disposti a
tavola, in ordine più o meno sparso. Alcune delle ragazze sfoggiano occhi e
guance moderatamente truccati, probabile concessione strappata ai genitori in
cambio di chissà quale promessa, anche se nessuna di loro ha osato ravvivare le
labbra d’impudico rossetto. Abbigliamento casual. Prevalgono jeans e magliette a
maniche corte ma non mancano camicie, camicette e top perfettamente in sintonia
con la tiepida serata e con la stagione in corso. Magliette e top aderenti
mettono in risalto forme, in molti casi, acerbe ma che, non per questo, passano
inosservate ai nostri sguardi a dir poco allupati. Ovviamente, i nostri occhi
indugiano, soprattutto, su coloro che esibiscono, spavalde e provocatrici,
articoli voluminosamente più esuberanti. A tavola, poi, le dolci prominenze
superano di poco il limite del tavolo, risaltando ancora di più oltre il candido
piatto.
Sonia, puppedoro, è quasi di fronte a me, leggermente spostata
sulla sinistra ed indossa una maglietta di cotone giallo paglierino attillata
all’inverosimile che lascia ben poco all’immaginazione; si riconosce perfino la
trina del reggiseno e lo scollo a “V” scopre, anche se non di molto, un incavo
nel quale sono già caduti, e tra l’altro si sono sperduti, gli occhi di quasi
tutti i ragazzi del tavolo. Si pavoneggia candidamente compiacendosi di
procurare appagamento, anche se soltanto visivo, alla bramosia degli imbambolati
e stolidi compagni. Giurerei che pochi di noi hanno notato il purpureo papavero
che spunta dalla costola della maglietta di cui orna simpaticamente la parte
inferiore. Ma Sonia sa che fa parte del gioco e ne è consapevolmente
soddisfatta.
I jeans di Maura sono un altro miracolo della natura: scoloriti,
quasi bianchi, soprattutto sulle cosce e sul dietro, dove risaltano sfavillanti
brillantini ad ornare le tasche posteriori, che a loro volta inguainano ciò che
lei ha di più interessante. Un mandolino di glutei, degni del concerto di
Ferragosto per archi e fiati in goppa a
Posillipo. È in ginocchio sulla sedia vicina al capo-tavola alla mia
sinistra, i piedi incrociati, china in avanti con i gomiti appoggiati sul tavolo
e le mani che sostengono il mento rotondeggiante; si dimena come una bambina
capricciosa senza rendersi conto di stuzzicare pericolosamente animi già
abbastanza elettrizzati ed impulsi repressi a dir poco irrequieti.
Considerazioni a parte per il bell’Adone. Fulvio è il più alto
di noi, capelli scuri, un ciuffo sulla fronte spesso rimosso con ampi movimenti
del capo, occhi scuri e gran fisico da cestista. Le ragazze fanno sempre
capannello intorno a lui. Questa sera è abbigliato con jeans bianchissimi,
cintura di tela blu, in armonia con le scarpe da ginnastica, camicia a righe
verticali non troppo sottili bianche e rosse ampiamente aperta sul petto
vagamente villoso con tanto di catenina e crocefisso d’oro. Un golfino di cotone
bianco sulle spalle contrasta con la discreta abbronzatura. Contrariamente al
solito, ed inspiegabilmente, il gentil sesso, stasera, non sembra
particolarmente ammaliato dall’avvenenza del bellimbusto che, almeno
inizialmente, se ne rimane un po’ in disparte con nostro dispiacere. Due battute
ed il mancato colpo ad effetto è solo un brutto ricordo: alla fine anche lui si
butta nel mucchio per la gioia della spensierata compagina.
L’unico neo nella
fantasia di colori e d’indumenti è l’abbigliamento di Francesco, con i soliti
pantaloni di fustagno corti quanto basta a scoprire il candido calzino ed i
mocassini di vacchetta; la camicia a quadri modello Far-West, rigorosamente a maniche
lunghe, è immancabilmente abbottonata fino al collo. Che non abbia altro nel
guardaroba? Per tutto l’inverno ha indossato più o meno il solito abbigliamento,
maglione più maglione meno, a dir poco stantio. Sembra già una persona anziana.
Avesse i baffi e la pipa di radica tra i denti giallognoli, sarebbe già pronto
ad impersonare la parte di suo nonno.
Con passo deciso lo Zingaro si avvicina con sei bottiglie
d’acqua frizzante tenute per il collo dalle dita delle mani poderose. Appoggia
le bottiglie sul tavolo in ordine apparentemente casuale. In realtà, ad un
osservatore più attento non può sfuggire che ogni bottiglia è perfettamente al
centro di quattro persone e prontamente Raimondo ritorna con altre due bottiglie
che completano la fornitura d’acqua. Nonostante le nostre reiterate proteste,
solo la zona riservata agli adulti è stata rifornita con due bottiglie di vino
bianco frizzantino delle campagne locali. Ma lo Zingaro sa come accontentarci e
ci allunga, di sottobanco, un paio di Peroni da tre quarti che in parte ci
appagano.
Tra un vociare e l’altro, sbucano i piatti degli antipasti: un
paio di fette di prosciutto San Daniele magro, altrettante di salame toscano, un
crostino di fegatini di pollo e capperi ed una tartina con burro e salmone
incorniciano un pugno di verdurine sott’olio tra cui spiccano un cetriolino,
pezzetti di carciofo, di peperone, olivette ed altro. Vassoi di piccoli rosei
calamari dalle teste tentacolate e gamberetti bianco-arancioni, anch’essi
sott’olio, vengono dispensati lungo tutta la tavolata, alternati a terrine di
cozze, vongole ed altri frutti di mare, ornati da una verde spolverata di
prezzemolo tritato. Grandi spicchi di limone, dall’aspetto succoso, coronano le
portate. Con gesti composti le mani svolgono i tovaglioli che vengono
educatamente appoggiati sulle ginocchia. Qualcuno sceglie l’alternativa
d’incastrare l’angolo del tovagliolo al colletto della camicia o della
maglietta. Poi l’imprevedibile! L’abbuffata è generale. Brutta, la fame! Anche
le signorine non disdegnano e, in men che non si dica, buste di grissini ormai
vuote e briciole di pane rimangono sparpagliate sul tavolo a testimonianza
dell’avvenuta libagione. Tovaglioli accartocciati giacciono vicino ai piatti.
Placato l’impulso iniziale, ci gustiamo con più moderazione i primi piatti a
base di cannelloni ripieni, tagliatelle ai frutti di mare e riso alla pescatora,
il tutto servito in tavola da un Raimondo in perfetta forma che non risparmia
simpatiche ed ironiche battute sui conviviali. Gli indecorosi ed avidi approcci
introduttivi si placano definitivamente all’arrivo di un roast-beef al sangue,
di sontuosi gamberoni in guazzetto e di una croccante frittura mista, con tanto
di crognoli e trigliette, che vengono degnati di poche distratte attenzioni. Il
tutto è completato dal contorno delle immancabili patatine fritte e di una
multicolore insalata mista, su cui spiccano pezzetti di vermigli ravanelli,
sottili filamenti di carote, cuori di carciofi nostrali tagliati a fettine e
dorati chicchi di mais. Non desta scalpore il fatto che Nanni sia l’unico a
dedicarsi ancora anima e corpo alle portate del banchetto. La classica merenda
di Nanni, all’intervallo delle dieci, era costituita da due massicce fette di
pane casalingo imbottite, a giorni alterni, da un’appetitosa frittata o da
soppressata di maiale. Negli anni ha probabilmente sviluppato uno stomaco ed un
fegato da record ed anche stasera non si smentisce. Mentre il cibo ha perduto
per noi ogni attrattiva ed abbiamo dirottato i nostri interessi verso un’animata
conversazione, con inevitabili lanci di palline di mollica di pane e buste vuote
di grissini accartocciate, lui continua di buona lena a prendere a morsi i
gustosi gamberoni. Nel frattempo la fornitura di Peroni è raddoppiata e qualcuno
se ne sta approfittando. L’immancabile macedonia di frutta fresca, sormontata da
un paio di palline di gelato di crema ed accompagnata da qualche bottiglia di
spumante obbligatoriamente dolce, viene accolta con un entusiasmo che lo Zingaro
dimostra di apprezzare molto. Nonostante il riacutizzarsi delle proteste per la
mancata fornitura di vino, Raimondo considera caffè ed ammazza-caffè
un’esclusiva del corpo docente.
La serata prosegue con gl’insegnanti che si avvicinano alla zona
del tavolo di nostra competenza con l’intenzione di avviare una conversazione
amichevole: felicissimo è il prof di Disegno che si siede in mezzo a noi, quasi
di fronte a me, dispensando battute, aforismi ed aneddoti che lo rendono ancora
più simpatico. Ancora una mezz’oretta, tra un «ce l’avete il (la) fidanzato
(a)?» ed un «quale scuola avete scelto per proseguire gli studi», poi,
inevitabilmente, arrivano i primi segni d’insofferenza da parte di alcuni di
noi. Le bimbe più intraprendenti e già oggetto delle attenzioni di uno
spasimante, se pur assolutamente al di fuori di tutti i crismi dell’ufficialità,
sbirciano smaniose verso la strada nella speranza di poter abbandonare alla
svelta la compagnia. Alla spicciolata, ci alziamo dal tavolo ed usciamo sulla
Via del Mare, non prima di aver pagato la propria parte del conto ed aver
salutato calorosamente il nostro amico Zingaro, come sempre all’altezza della
situazione. È quasi mezzanotte, i genitori delle ragazze sono già venuti a
prenderle, ma noi spendiamo gli spiccioli di questa serata sulla buia spiaggia
dove l’unico barlume è generato dalle luci dell’Ippocampo, il bar simbolo della
spiaggia libera. Sbuca un pallone e, tra un calcio ed un colpo di testa,
troviamo finalmente la strada che ci porta verso casa. Siamo di nuovo sulla via
del mare, ormai deserta, questa volta diretti verso la piazza, siamo rimasti in
tre, tre somari e tre briganti come
direbbe Domenico Modugno: Feo, Franco ed io. Niente da fare. Non siamo capaci di
trovare la strada per andare a letto. È la prima volta che facciamo così tardi e
ce la godiamo. Ci sediamo su una scomoda panchina di cemento della piazza e
scambiamo le prime impressioni a caldo sulla serata appena trascorsa. In fondo è
stata una bella serata e ci siamo comportati egregiamente. I commenti ricadono
inesorabilmente sulla maglietta di Sonia, i jeans di Maura, le battute dello
Zingaro eccetera… eccetera… eccetera… Franco manifesta leggeri segni di
ebbrezza, probabilmente è l’unico dei tre a non aver trovato la giusta misura
nel mescere la birra abusivamente fornitaci dallo Zingaro. Appoggia la testa
sulla spalla di Feo e tende a addormentarsi. Anche i nostri occhi cominciano a
farsi pesanti e decidiamo che è l’ora di affidarsi alle braccia di Morfeo.
Mentre Franco, quasi del tutto sveglio, si avvia verso la parte
opposta della piazza, Feo ed io percorriamo ancora pochi passi insieme,
illuminati dalla luce lattiginosa dei bassi lampioni. Al primo incrocio, lui
prende a sinistra ed io a destra, diretti verso le rispettive abitazioni.
«Ciao, ciao a domattina. No, pomeriggio, domattina guai a chi mi
sveglia prima di mezzogiorno!».
Durante il breve tragitto che mi separa dal cancello del
giardino di casa, mi torna in mente la fugace apparizione della mia Biancaneve
in pizzeria da Doriano. Per tutta la sera non avevo più pensato a lei, in
tutt’altre faccende affaccendato. …Però. …Era proprio carina! Entro in giardino,
la ghiaia scricchiola sotto le scarpe, apro il portone, chiuso a doppia mandata
e lo richiudo alle mie spalle ripristinando la doppia mandata. Salgo le scale e
l’immagine di lei non mi abbandona. I miei dormono nella grossa… forse!
Silenziosamente, come un gatto sui tetti, oltrepasso la porta di camera mia,
cerco a tastoni la luce sul comodino e la accendo. Sulla parete di fronte al
letto, prendono corpo i poster della Lancia Fulvia HF rossa e nera di
Munari-Mannucci sulle nevi del Rally di Montecarlo e della 124 Abarth, anch’essa
rossa e nera, di Verini-Rossetti al Rally di Sanremo. Dopo essermi spogliato mi
corico supino sul letto ed incrocio le mani sul cuscino, dietro la nuca fissando
il soffitto. Le idee si confondono nella mia testa e sprazzi di aperitivo da
Doriano e cena dallo Zingaro si confondono in un cocktail micidiale finché il
sonno non prende il sopravvento. Mi risveglio dopo un po’ con la luce del
comodino ancora accesa. Faccio appena in tempo a pensare: “Chissà che ore
sono?”, a spegnere la luce, che piombo di nuovo in un sonno profondo.
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