la prima parte
del primo capitolo
Giugno
’72. Ridente località balneare al limite nord della Maremma Toscana. Una
bellissima, immensa piazza, coronata da platani ed acacie secolari, è
impreziosita da aiuole ben curate nelle quali risaltano fiori multicolori. Il
busto bronzeo di Giuseppe Garibaldi sorveglia il paese dalla sommità di una
stele di granito alta una decina di metri e, poco innanzi, il monumento ai
caduti in candido marmo di Carrara a testimonianza del passaggio della Seconda
Guerra Mondiale. A sinistra del busto una grande fontana allieta lo sguardo di
paesani orgogliosi e di spensierati turisti con un alto zampillo che ricade in
una vasca circolare a due piani, dove sguazzano pesci rossi e muggini degni di
un acquario. Al crepuscolo giochi di luce di colore giallo, blu e rosso
conferiscono allo zampillo una policromia che ravviva la già suggestiva fontana.
La chiesa, dedicata a San Leopoldo, Granduca di Toscana, si erge austera
all’estremità ovest della piazza dominandola e volgendo le terga alla Via del
Mare, pellegrinaggio estivo di miriadi di villeggianti. In inverno
tremilacinquecento abitanti il cui svago principale è di aspettare che venga
l’estate. In estate, appunto, orde di turisti calano prevalentemente
dall’hinterland Toscano, dal Nord Italia e oltre riempiendo vie, piazze, spiagge
e negozi con la tipica allegria e spensieratezza della gens vacanziera. Un cinema all’aperto,
una discoteca, alcuni bar, negozi di vario genere, due stabilimenti balneari,
alberghi, pensioni, campeggi e pizzerie per lo più ad attività stagionale: il
minimo indispensabile per una località di villeggiatura.
Le
sette di sera. Manca meno di una settimana all’esame di licenza media. Doriano
ha da pochi giorni terminato i routinari lavori di ristrutturazione che ogni
anno precedono l’apertura del suo bar-pizzeria-tavola calda, preparandolo ad
affrontare l’imminente stagione estiva. Precoci turisti, per lo più tedeschi in
pantaloni corti color cachi e sandali di pelle che mettono in risalto gambacce
varicose e lattiginose nonché piedi inguainati in calzini color topo, ordinano
pizze e calzoni ai gusti più disparati. Salsicce, patate e cavolfiore.
Gorgonzola, wurstel e melanzane. Frutti di mare, carciofi e cacio pecorino.
Speck, mascarpone, cipolla e gli immancabili crauti. Birra a fiumi. Il forno
scalpita e spalanca ansiosamente la bocca dalla quale s’intravedono lingue di
fuoco smaniose per l’esordio stagionale.
I
locali del bar e della pizzeria sono separati da un arco al quale sono appesi
tramagli e vecchie reti, avuti in eredità da anziani pescatori locali, nei quali
sono imprigionati inattendibili ma simpatici abitatori del nostro mare: due
saraghi pizzuti, un’orata, un parago, tre o quattro stelle di mare un
cavalluccio gigante, gusci di cozze, vongole e gangilli a iosa. I pesci sono
rigorosamente di plastica, ma non sfigurano.
Sulla
cappa del forno, in bella mostra, dominano due splendide valve di “nacchera” dal
colore marrone rossiccio che sfuma in argento verso l’estremità più sottile. In
mezzo alle valve della “nacchera” troneggia un’enorme margherita di mare
arancione chiaro orgoglio di Lino-nero, il pescatore più simpatico. Un astice,
dal tipico colore bruno-chicco-di-caffè-tostato, esibisce spavaldo le sue chele
giganti e si arrampica sulla parete di fronte all’ingresso. Quadri e stampe di
argomento marino sono appesi in ordine sparso sulle altre pareti.
Davanti
al bancone del bar, vicino al frigo dei gelati, un juke-box tutto cromato, con
la facciata di colore giallo e blu elettrico, dove le figure di due dischi 45
giri, umanizzati da un atteggiamento di ballerini di tip-tap, la fanno da
protagonisti. È in perfetta forma ed attende impaziente di essere animato da
cento lire sonanti, ricompensando con tre canzoni a scelta tra quelle del suo
vasto repertorio.
All’esterno
i tavoli sono piazzati sotto una pergola di vite americana e canne sottilissime
efficace schermo per il sole, di giorno, o per l’umidità caratteristica di molte
serate estive. Questo è il regno di Doriano, che zampetta qua e là tra pizze,
coca cola e caffè, sempre col sorriso sulle labbra.
Due
tipi ad un tavolo del bar, sotto il pergolato, ordinano un aperitivo.
L’atteggiamento è quello giusto, anche se un po’ impacciato: jeans, cintura di
tela, camicia aperta sul petto glabro, golfino di cotone attorcigliato alla
vita, scarpe da ginnastica nuove-nuove ed immancabili occhiali scuri sulla
testa. Barba, o meglio quel poco di peluria che c’è, appena rasata ed un
profumino di Acqua Velva, gentile
concessione del babbo, che è tutto un programma. Se non fosse che fanno poco più
di 28 anni in due…
Doriano
asseconda i giovanotti, ma non può trattenere un risolino sotto i baffi. Siamo
noi. Due della terza “A” della Scuola Media Statale “Dante Alighieri”. Feo ed
io. Amici inseparabili. Siamo compagni di classe fin dai tempi della Signora
Zita, la nostra maestra della Scuola Elementare “Angiolo Silvio Novaro”. Feo
s’incazza se lo chiamano Feo, ma io posso farlo. Stiamo aspettando il resto
della banda, i nostri compagni della terza “A”. L’ultima cena o, per farla meno
tragica, la cena di commiato prima dell’esame per la licenza media, è prevista
per le otto al ristorante della pensione Edy gestita da Raimondo, detto lo Zingaro per le origini gitane, così
si dice in giro, della sua famiglia.
Doriano
ci porta due rigorosamente analcolici aperitivi da formula uno: rosso Ferrari.
In ogni bicchiere una scorza di limone galleggia spavalda come una zattera
gialla ai bordi della quale si abbarbicano velenosissimi coloranti come l’E-121
o il famigerato E-123 (quello del Rosso Antico, per intenderci). Una patatina,
un’olivetta con lo stuzzicadenti, un sorso, un’altra patatina… che bello essere
diventati grandi. Fino ad ieri Doriano ci avrebbe riso in faccia se le nostre
richieste avessero oltrepassato il limite di un gelato ma oggi, eccoci qua,
serviti e riveriti. Con tanto di portafoglio ricco di ben duemilacinquecento
lire per poter discutere sul classico pago io…no offro io…
Clic-clic:
C-8. L’indice di una mano esile danza sulla tastiera e seleziona sul juke-box
I giardini di marzo di Battisti: le
note si propagano discrete nell’ambiente circostante. I movimenti leggiadri
delle dita affusolate carpiscono l’attenzione di uno dei due (che non è
Feo).
I
suoi occhi seguono il profilo delle unghie curate, della mano leggera sulla
quale spicca un timido anellino ad adornare l’anulare. Polsi sottili, un
braccialetto di corallini bianchi e rossi, leggerissima peluria bionda, quasi
trasparente, sul braccio candido messo in risalto dalla manica corta della
maglietta rossa. Un’onda leggera dei capelli castani, sottili come seta, è
adagiata sulle aggraziate spalle di cui ricopre la parte superiore. Vita
sottile, fianchi modellati e gambe slanciate in parte coperte da una gonnellina
bianca corta, ma non troppo, stretta in vita da una cintura color corda a trama
intrecciata.
Niente
calze: “deve avere la mia età” – penso. Un metro e sessantotto, si e no. Un
timido corpicino ancora coinvolto nel difficile processo di sviluppo che Madre
Natura riserva agli adolescenti. Indossa scarpe da tennis, anch’esse bianche,
con una piccola margherita disegnata su un lato. Il ginocchio sinistro,
leggermente piegato, batte lievi colpi sul vetro frontale del juke-box, seguendo
la melodia della canzone. Raddrizza la gamba, vi si appoggia e solleva
armoniosamente il piede dell’altra gamba fino ad appoggiarne la punta sul
pavimento riprendendo il ritmo dal punto in cui lo ha lasciato. Le scarpe sono
nuove: la suola di gomma è quasi intonsa. Ora ha entrambe le mani appoggiate
sulla cornice cromata del vetro superiore del juke-box, le dita arcuate in posa
plastica, le braccia distese. Movimenti appena accennati del corpo assecondano
la voce di Lucio Battisti e le note della canzone. La testa minuta è china in avanti ed i
capelli si muovono lievemente. Una ciocca scavalca la spalla sinistra, dietro la
quale si nasconde, e copre a sua volta il già poco visibile volto. “Girati, per
favore, ma che cosa ci sarà mai di tanto interessante sotto il vetro del
juke-box.” – Vorrei dirle. Niente. Ha deciso di leggere i titoli delle canzoni
di tutti i cartoncini colorati esposti in quella specie di
rastrelliera.
Feo
parla ininterrottamente dell’imminente cena con i compagni di classe, ma chi lo
sente. Faccio cenno di sì con la testa, senza distogliere lo sguardo. Crede che
io lo ascolti, ma per me è solo un fastidioso brusio: sta parlando praticamente
da solo.
“Aspetta!
Aspetta! Si sta voltando.”
Mi
sembra di vedere la ripetizione di un gol al rallentatore. Con un movimento
lieve ma deciso della testa si libera di una ciocca di capelli mostrando il
faccino in tutta la sua radiosità. È vero, avrà più o meno la mia età. Mostra
occhi grandi, castano chiaro, ciglia lunghe, il tutto armoniosamente
incorniciato da sopracciglia ben marcate ma sottili. Nasino perfetto, piccoli
denti bianchissimi fanno capolino dalle sottili labbra socchiuse. Un lievissimo
rossore imporpora le guance magre conferendo al colorito pallido del viso, non
ancora violato dall’abbronzatura estiva, una luminosità angelica. Un’impronta
impercettibile di efelidi sul naso è come la classica ciliegina sulla torta.
Bellina. Molto bellina. Una bambolina.
Ed
io? Inebetito come un cammello senz’acqua in mezzo al Sahara: labbro inferiore
sporgente, salivazione azzerata ed occhi a palla. Con quattordici anni di ormoni
scalpitanti tenuti a freno da briglie di carta velina, cerco le parole giuste
per rompere il ghiaccio, senza turbare l’atmosfera che si è creata (anche se,
forse, solo nel mio immaginario).
Non
sono mai stato un campione nell’approccio. Finora, nelle precoci occasioni in
cui abbiamo fatto i cascamorti con ragazzine alla nostra portata, è stato
compito di Feo. È lui il più sfacciato dei due. Quando ci proviamo con due tipe
lui attacca bottone e poi…avanti insieme. Ma questa volta no, devo fare da solo.
Lui non c’entra niente. Troppo carina, troppo graziosa, troppo delicata, troppo
dolce, troppo attraente, troppo… troppo… troppo… troppo e basta.
Vediamo…
vediamo: “Ciao, come ti chiami?”. No è banale. “Buonasera signorina…”. Troppo
antiquato. “Posso offrirti qualcosa?”. Figurati, che gli offro a quest’ora un
gelato? Noooo! “Ti piace Battisti!?!”. Che stupido! È ovvio che le piaccia
Battisti, ha selezionato lei la canzone. “Come sei carina…”. Troppo diretto.
“Sei da sola?” Niente da fare, non mi viene niente di adeguato. Accidenti! Come
farebbe Feo? Ad un tratto…
Mi
alzo, stringo in vita il nodo del golfino, il rosso Ferrari nella mano sinistra,
perfetto…
…il carretto passava e quell’uomo gridava:
gelati…
«SEME,
NOCCIOLINE, CARAMELLEEE…..»
È
lui, non può essere che lui, l’inopportuno per eccellenza. È una canzone così
dolce, una colonna portante della musica italiana, un’atmosfera quasi irreale,
una favola che diventa realtà e la mia Biancaneve lì, a meno di tre metri di
distanza. Il tutto rovinato dallo scemo del villaggio. Flipper. Ci mancava solo
lui.
In
realtà non è scemo, è solo che arriva sempre nei momenti meno opportuni con le
battute meno azzeccate. È come un bruscolo in un occhio. Un capello nella
minestra. La pioggia quando hai lavato il motorino. Il colpo di vento quando
stai per afferrare il pennacchio del calcio-in-culo. È lo starnuto, quando premi
il grilletto per colpire un bersaglio al tiro-a-segno del Luna Park. È il
sassolino nella scarpa, quando stai per calciare il rigore della finale della
Coppa dei Campioni. È la puntina da disegno che ti fora la ruota della
bicicletta, quando stai per vincere la Milano-Sanremo. È l’acqua della doccia
che diventa gelata, mentre sei ancora insaponato da capo a piedi. Flipper è
tutto questo e anche di più. Ma in fondo, ma molto in fondo, è un bravo ragazzo.
Fosse anche cattivo…
La
cosa più incredibile è che non è neanche in classe nostra, non è invitato alla
cena, non ci combina proprio niente. Che cosa ci fa a quest’ora, proprio qui?
Dovrebbe essere a casa sua, a cena, come tutte le sere.
Lo
fulmino con lo sguardo, ma lui avanza con l’incedere impetuoso che caratterizza
la sua vitalità, la sua continua allegria e la sua smania di essere al centro
dell’attenzione a tutti i costi, in qualunque occasione. Mi travolge, mi
abbraccia. Faccio appena in tempo ad appoggiare il bicchiere sul tavolo
scongiurando la macchia di rosso Ferrari su camicia e calzoni. Mi trascina verso
Feo, che è ancora seduto, ed abbraccia anche lui, quasi cadiamo per terra. Ci
stropiccia, ci strapazza.
«Flipper
ma che fai, ci siamo visti solo ieri sera» – lo apostrofa Feo – «Un po’ di
contegno. Siamo in un locale pubblico. Misura il tuo entusiasmo».
Feo
che fa il distaccato con Flipper, gli fa la morale e cerca di calmarlo è
l’ultima stranezza che mi aspettavo. Va bene. È una serata particolare, siamo
diventati adulti, ma non per questo rincoglioniti. La sera precedente, cui Feo
fa riferimento, eravamo tutti insieme a giocare a nascondino in piazza della
chiesa. C’erano anche Massimo, Luca, Antonio, Roberto, Mimmo e altri. Una
quindicina in tutto e proprio Feo, per nascondersi, si è arrampicato sulla cima
dell’albero più alto della piazza intonando L’isola ideale dei Nomadi. Ed ora fa il
distaccato.
Mi riprendo
dall’uragano Flipper appena in tempo per notare che la mia fatina ha lasciato il
juke-box, raggiungendo la famiglia al tavolo più lontano, sotto il pergolato,
vicino all’ingresso. Un piccoletto, probabilmente il fratellino di quattro o
cinque anni, è seduto di fronte a lei e fa i capricci per mangiare la sua pizza,
ma la mamma lo imbocca amorevolmente, laddove il babbo controlla compiaciuto la
situazione. Un quadretto di famiglia ideale. Non sembrano Tedeschi, ma non sono
neanche del posto. Il paese è talmente piccolo che li conoscerei. Forse
Fiorentini, Pisani, Milanesi, Torinesi. Boh! L’unica certezza è che, per colpa
del guastafeste, ho perduto l’occasione di conoscerla. E pensare che ero così
vicino. E ora? Non ho altre possibilità. Non ritornerà mai più al
juke-box.Mi
consola il pensiero che abbia escogitato il pretesto di selezionare una canzone
per avvicinarsi a me. A me o a Feo??? Il dubbio atroce rosica la mia mente come
un tarlo in un mobile del seicento.
…continua
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