sei di vada se...

domenica 28 ottobre 2012

quarto 1 di 2

Quarto 1/2
Pochi giorni di vacanza mi separano dal mio primo giorno di lavoro stagionale presso il piccolo albergo di un amico di famiglia a due passi dal mare, confinante con la pensione dello Zingaro.
Me la spasso con la solita combriccola ma soprattutto con una Martina radiosa e piena di energia. Di giorno sulla spiaggia o la sera al piccolo Luna Park allestito nelle vicinanze del mitico campino: è sempre all’altezza della situazione ed inventa tenerissime coccole, quando ci concediamo qualche momento d’intimità.
l'ultima notte di quiete, cinema estate, vada, spiaggia, mareSull’arenile della spiaggia libera in fondo alla Via del Mare, nell’aria calda di un pomeriggio di fine Giugno, approfittando degli ultimi giorni in cui l’affluenza dei turisti è ancora scarsa, abbiamo imbastito una partita di calcio all’ultimo granello di sabbia: Feo, Franco, Antonio ed io da una parte; Mimmo, Flipper, Massimo e Luca dall’altra. Delimitazioni del campo: nessuna. Le porte: gli zoccoli piantati nella sabbia. Una fatica indescrivibile, ma il divertimento è assicurato. Dopo i primi approcci in cui ci arrischiamo in palleggi, finte di corpo e schemi, che riflettono quanto appreso durante gli allenamenti invernali, iniziamo a perdere il passo, i rimbalzi della palla diventano imprevedibili sulle gobbe caratteristiche della spiaggia; ben presto l’agonismo prende il sopravvento sulla tecnica e ciò che era iniziato come una partita di calcio, assume sempre di più i connotati di un incontro di rugby. Le ragazze sono distese supine sugli asciugamani a prendere il sole, inizialmente disinteressate e, man mano, sempre più attratte dagl’inevitabili schiamazzi che si levano dalla furiosa ma pur sempre amichevole mischia. Le scorgo distese in avanti, ora, appoggiate sui gomiti, con le teste dritte che sorridono divertite. I dieci minuti che seguono trascorrono all’insegna del caos più completo, con un groviglio umano che si rotola sulla spiaggia noncurante della palla, primordiale scintilla di questo pirotecnico diversivo. Spossati ci accasciamo al suolo, con la pelle marcata da segni rossastri causati dalla colluttazione ed infarinati di sabbia bianca fin sopra la punta dei capelli: percepisco i finissimi granelli persino in bocca, tra i denti e dentro gli slip con un fastidio al limite dell’insopportabile. Con l’impeto violento di un’orda di barbari incivili, prendiamo la rincorsa verso il mare dove ci tuffiamo con un fragore che attira l’attenzione di gran pare dei frequentatori della spiaggia. Una nuotata purificatrice ritempra i nostri fisici spossati dall’immane quanto inutile fatica. In acqua, mi tolgo lo slip provvedendo ad una copiosa risciacquata per liberarmi dai fastidiosi granuli insinuatisi tra le pieghe del costume e la mia pelle sudata. Mi ricompongo e raggiungo nuovamente il campo base. Le ragazze, sui teli di spugna colorati, volgono ancora la schiena al sole ed alla riva del mare e non si accorgono del mio arrivo: dalla mano, faccio sgocciolare un po’ d’acqua sulle spalle di Martina che si volta di scatto in risposta ad un improvviso brivido. Mi scruta con sguardo artificiosamente arcigno ed io mi corico sul suo stesso telo in attesa di una reazione che non tarda a manifestarsi. Prende un pugno di sabbia e minaccia d’infarinarmi un’altra volta, ma poi ci ripensa e mi rifila un minuscolo morso sul naso. Si corica di nuovo, questa volta sulla schiena, io mi isso sul gomito sinistro, appoggio la testa sul pugno chiuso, mi soffermo pochi istanti a contemplare il fiore che mi sta di fianco e le accarezzo il collo con il dorso delle dita ancora fredde e parzialmente avvizzite dal recente bagno in mare. Mi accorgo di un sottile brivido che percorre la sua epidermide, confermato dalla caratteristica pelle di gallina che su di lei assume sembianze incantevoli, e mi accingo a sedare prontamente il fremito con un bacino alla base del collo, nell’accattivante incavo tra le due clavicole. La pelle buccia di pesca ritorna liscia e vellutata destando in me irrequieti impulsi assolutamente fuori tempo e luogo, che difficoltosamente riesco a pacare. Mi distendo e catturo la sua mano destra con una stretta vigorosa che placa in parte le smanie recentemente stimolate.
Poco dopo si alza, distinguo la sua esile silouette in controluce, mi tende le mani alle quali mi aggrappo per tirarmi su ed abbandoniamo temporaneamente il resto della compagnia per una rilassante passeggiata sulla battigia con il mare alla nostra destra. Valichiamo la diga di scogli che si protende in mare e raggiungiamo un tratto del lungomare scarsamente frequentato. La striscia di spiaggia fuori del paese è deserta di questi tempi e, prefigurando l’imminente invasione turistica, ce la gustiamo tutta per noi. I sempreverdi cespugli di tamerici, a pochi passi dalla battigia, coprono la visuale dei campi circostanti e circoscrivono il paesaggio conferendogli una certa riservatezza. Mi saltella intorno elettrizzata, mi schizza prendendo a calci l’acqua bassa, ed io faccio altrettanto, poi mi corre incontro, prende le mie mani nelle sue, si accosta:
«Andiamo al cinema, stasera?» – mi chiede – «Danno un film che vorrei vedere con te.»
«Perché no!» – replico io – «Ogni tuo desiderio è un ordine!». Si abbuia in faccia e prende le distanze, con le mani che si perdono.
«Io non ordino niente, se non ti va, ci vado da sola e tu puoi pure uscire per conto tuo!» – replica risentita.
“Che cosa ho detto di tanto orribile?” – penso dispiaciuto – “mi sembrava una cosa carina mettermi a disposizione dei suoi desideri. È quello a cui aspiro di più, in questo momento”.
Ha messo il broncio. “Ma perché?” – continuo a rimuginare.
Mi avvicino e faccio per prenderle il mento tra le dita, ma mi sfugge con uno scatto risoluto della testa. Ha portato le mani dietro la schiena e cammina con gli occhi bassi con i lunghi capelli che celano, al mio sguardo, il visino crucciato. La nostra prima litigata. Non è possibile, per un motivo così futile.
Cammino al suo fianco in silenzio: la guardo, ma lei non alza la testa e, ogni tanto, da un calcio ad una di quelle palline spugnose composte d’alghe rinsecchite che si trovano spesso sulle nostre spiagge, facendola rotolare lontano. Cerco di afferrarla per mano, ma mi evita di nuovo con una scrollata dell’esile busto. Segue qualche interminabile istante di silenzio assoluto, rotto solo dal cadenzato frangere delle onde e dall’urlo di un inopportuno gabbiano che vola verso il largo. Allungo il passo, la supero, mi volto, mi fermo di scatto davanti a lei e l’afferro deciso per le spalle inducendola a guardarmi:
«Che cosa ho detto di male?» – le chiedo determinato ma sereno.
Una fioca incertezza poi, mantenendo basso lo sguardo e con una vocina che mi riempie di tenerezza, sussurra sommessamente:
«Se non vuoi venire al cinema con me, basta dirlo!»
«Ma io lo voglio.» – replico sbalordito – “le ho dato questa impressione?” – rimugino.
«Hai detto che è un ordine, agli ordini si obbedisce. Gli ordini non si eseguono spontaneamente: quindi lo fai controvoglia. Non hai nemmeno voluto sapere di che film si tratta.»
«Hai equivocato. Ho solo preso in prestito un modo di dire. Volevo che tu sapessi che ogni tuo desiderio è un mio desiderio. Non m’interessa di che film si tratta, voglio solo passare la serata insieme a te. Io vado al cinema, se tu vai al cinema, faccio una passeggiata se la fai anche tu e scalo il Monte Bianco se tu lo vuoi. Non abbiamo mai litigato da quando ci conosciamo, praticamente dalla nascita, ed ora che ci siamo riscoperti in questa nuova meravigliosa ottica, vogliamo bisticciare per una stupidaggine? Non sia mai!»
Alza lo sguardo, mi fissa occhi negli occhi ed il broncio sta già dileguandosi gradualmente, mentre, adagio, si scioglie tra le mie mani ed io allento la presa.
«Io sono felice, quando tu sei felice!» – concludo.
Mi getta le braccia al collo, accosta il suo corpo al mio ed appoggia la fronte al mio mento, ancora con gli occhi bassi, mentre le cingo con le mani la sottile vita. Un minuto di sensazioni impareggiabili, poi, all’improvviso, si discosta mi ghermisce la mano e mi trascina in mare correndo e sollevando spruzzi tutt’intorno. Mi si avvinghia di nuovo al collo e mi trascina sott’acqua con forza, riemergo e non ho neanche il tempo di respirare che mi tappa la bocca con un bacio mozzafiato. Siamo entrambi un’altra volta completamente sommersi. Emergiamo tra la schiuma generata dai nostri stessi incontrollati movimenti. Il suo viso è di nuovo raggiante. La nuvola passeggera, foriera di pioggia e di tempesta, si è sollecitamente dissolta, per fortuna, lasciando il campo ad un sole sfolgorante. La mia Martina, quella vera, ha preso di nuovo il sopravvento. Mi accorgo che non è bello litigare, ma è fantastico riconciliarsi.
Il cinema all’aperto, allestito per la stagione estiva, è una delle poche attrazioni serali del paese. I film non sono, ovviamente, di prima visione tuttavia, pur di non bighellonare per la piazza, una serata al fresco fa sempre piacere, specialmente se in buona compagnia.
Alle nove e mezzo di sera è prevista la proiezione di La prima notte di quiete, con Alain Delon, idolo incontrastato delle donne: quasi una prima visione, vietato ai minori di 14 anni ma questo non è più un problema.
Esco di casa e, per le scale, mi compiaccio dei miei jeans leggeri e della camicia a righe verticali sottili bianche e blu. Immancabile il golfino arrotolato e legato, per le maniche, al di sopra dei fianchi. Apparentemente come al solito, passo a prendere Martina poco prima delle nove. Suono il campanello del giardino.
«Scendo subito!» – risponde una voce argentina attraverso il citofono. Pochi secondi e sbuca dal portone sul pianerottolo delle scale esterne.
Chissà che effetto le fa vedere le espressioni, probabilmente grottesche, che la mia faccia assume allorché la osservo, inebetito, scendere le scale senza toglierle gli occhi di dosso. Se i suoi sono alla finestra ed anche loro hanno notato tutto ciò, ho messo seriamente a repentaglio la riservatezza dalla nostra innocente relazione. Un paio di sandalini bianchi col tacco basso, una gonna corta azzurra mette in evidenza le gambe affusolate e dritte, una maglietta aderente bianca e azzurra si modella gradevolmente sui delicati lineamenti del busto, un golfino di cotone bianco spenzola, accuratamente piegato, sull’avambraccio destro, mentre la mano sinistra scivola lievemente sulla ferrea ringhiera nera, la solita catenina d’argento ed i capelli raccolti in una lunga e folta coda di cavallo. Dalla spalla destra penzola una borsetta di tela bianca.
«Che vado a fare al cinema, è questo il mio film.» – le sussurro intanto che c’incamminiamo verso la piazza all’appuntamento con il resto della ciurma.
Mi sferra un buffetto al fianco destro, accompagnato da un risolino ironico, con la punta della lingua che fa capolino tra i denti bianchissimi. Salutata l’allegra brigata, ci avviamo verso il Viale Italia accompagnati dalla solita festosa cagnara degli amici più vivaci, capitanati da un Flipper in forma sfolgorante. Feo, stasera, è più calmo, intento com’è a prestare mille attenzioni a Fulvia, una nuova amica, piuttosto carina, che si è unita da poco al nostro gruppo.
Il cancello del cinema è già aperto. Una coda di una quindicina di persone si snoda di fronte alla cassa, attendiamo il nostro turno e, quindi, ci dirigiamo all’ingresso dove la granitica Clelia, dall’aspetto alquanto mascolino, strappa i biglietti e ci fa accomodare. La ghiaia a grana grossa crepita sotto le scarpe nel cammino che dal cancello ci conduce alla platea. Le file di poltroncine verdi a stecche di legno sono separate da un corridoio longitudinale e due trasversali a formare sei settori ben definiti. Ci distribuiamo su tre file del settore di sinistra più lontano dallo schermo sistemandoci quattro o cinque per fila. Martina è alla mia sinistra e siamo seduti nell’ultima delle tre, l’ideale per controllare le manovre all’interno del gruppo. Fulvia è seduta di fianco a Martina e Feo accanto a Fulvia per completare lo schieramento. “Chissà se, con l’aiuto della penombra del film, Feo metterà in atto qualche tentativo di seduzione. Fulvia gli piace molto e mi sembra che anche lui non le sia del tutto indifferente.” – mi viene da pensare. Mi sporgo in avanti e colgo lo sguardo di Feo che si sporge a sua volta, sorrido e gli faccio l’occhiolino. In certe situazioni l’orologio che controlla i nostri riflessi è perfettamente sincronizzato e c’incontriamo sempre ad ogni appuntamento, anche se improvvisato, come in quest’occasione. Risponde nello stesso modo ed aggiunge un sorriso beffardo.
…Continua

domenica 1 luglio 2012

terzo 3 di 3



terzo 3/3
Giunto a casa, mangio in fretta, il tempo di cambiarmi e sento già le voci dei due compari che reclamano la mia presenza. Scendo le scale di corsa. Garage, bicicletta.
«Dove andiamo» – chiedo.
«Alle sabbie mobili del pontile!» – risponde Franco eccitato.
La zona erroneamente denominata “delle sabbie mobili”, in realtà, non è altro che una circoscritta fascia di spiaggia dove la larghezza della battigia raggiunge qualche decina di metri conferendo alla sabbia un aspetto acquitrinoso assolutamente poco consistente e cedevole al passo. Ai limiti della spiaggia, una piccola pineta. L’ampiezza dell’area è stata incrementata con gli anni, dopo la creazione di un bacino dove sono state depositate le sabbie di dragaggio del canale d’accesso al pontile. Il colore candido della sabbia e la presenza di dune, nella parte più vicina alla pineta, attribuiscono al paesaggio una fisionomia fantastica, al limite dell’irreale, capace di ghermire la fantasia di chi vi si avventuri con lo spirito di un ragazzino. In qualche punto si riesce ad affondare fino all’altezza delle cosce e la zona potrebbe essere pericolosa per bambini piccoli che vi si recassero senza la presenza vigile dei genitori, per questo è cautelativamente recintata con tanto di cartelli di pericolo. Noi riusciamo ad entrare facilmente grazie ad un buco nella rete di cinta scoperto tempo addietro. Solitamente ci facciamo risucchiare i piedi e le gambe dalle sabbie mobili nelle quali passeggiamo a lungo, saliamo sulle dune, vaghiamo sotto i pini… conosciamo la zona palmo a palmo. Come in una foresta boreale, immaginiamo liane che penzolano dagli alberi, gigantesche anaconde che sbucano dalle zone acquitrinose e salmastre, tribù di cannibali che c’inseguono minacciose ed imbastiamo avventure degne del miglior Salgari. Una volta che la fantasia ha dato lo spunto iniziale, ognuno aggiunge particolari avvincenti che permettono alla storia di nascere e compiersi nel breve giro di un pomeriggio. Ogni spunto, anche il più assurdo, viene preso in considerazione e colorito da espressioni razziate dalle pagine di romanzi di avventure per ragazzi. Ogni volta un episodio diverso. È passato quasi un anno dall’ultima volta che siamo penetrati nella nostra jungla personale e provo una certa emozione. Una breve ricerca e scoviamo il buco nella rete, entriamo. Pochi passi lungo un aspro viottolo tra i rovi e siamo pronti ad immaginarci una nuova vicenda. Finalmente giungiamo allo scoperto. Siamo disorientati: è tutto scomparso. Non ci sono più le dune, nemmeno le sabbie mobili, la pineta è pulitissima e le recinzioni sulla battigia sono state rimosse. È diventato un ordinarissimo tratto di spiaggia. Molto bello, niente da dire, ma insipido. Feo cade seduto ed incrocia le braccia appoggiandole sulle ginocchia piegate.
«Vi rendete conto?» – dice con disappunto.
«Dev’essere successo durante l’inverno.» – ipotizzo io.
«Quando ci siamo stati, l’ultima volta? Agosto o settembre dello scorso anno, vero?» – interviene Franco.
«Quelli del pontile hanno dato una bella ripulita!»
«Effettivamente, dal punto di vista estetico era uno schifo e piuttosto pericoloso, oltretutto.»
«Hanno raso al suolo il nostro set cinematografico.» – e mi incammino verso la battigia, prontamente seguito.
Effettivamente è stato fatto un buon lavoro. Logico che ci siamo rimasti male, era una parte di noi, ma ci rendiamo in fretta conto che era inevitabile.
Ci sediamo sulla spiaggia, rivolti verso il mare e, da una battuta all’altra, riprendono lentamente vita sprazzi delle storie partorite, in passato, dalla nostra fantasia in quel luogo per noi così importante. Tra un’imboscata d’agguerriti pigmei, un’estenuante caccia ad una tigre ferita ed il ritrovamento di un favoloso tesoro di pirati, il pomeriggio passa senza accorgersene ed il sole si avvicina all’orizzonte. Ritorniamo sui nostri passi soddisfatti, nonostante tutto. Attraversiamo di nuovo il buco, anche se abbiamo visto che la rete è ormai ridotta a poche decine di passi e sarebbe più comodo aggirarla, ed inforchiamo i mezzi di locomozione che ci trasporteranno alle rispettive abitazioni.
Nell’aula d’Educazione Artistica l’insegnante distribuisce, ad ognuno di noi, un quarto di cartoncino Bristol, gentile concessione del Ministero della Pubblica Istruzione. Il tema da rappresentare è già scritto alla lavagna. “Estate!”. Niente di più vago. Mi viene in mente una delle spiagge della nostra zona, piena d’ombrelloni, affollata di turisti che prendono la tintarella, bambini che giocano a pallone, che fanno castelli di sabbia, gente che si tuffa ma la complessità della rappresentazione mi consiglia di ripiegare verso qualcosa di più sobrio. Nel mio immaginario prende corpo un campo di grano con un paio di purpurei papaveri in primo piano ed uno spaventapasseri, sulla destra, a guardia del raccolto. Un filare d’ulivi secolari in secondo piano, sulla sinistra del foglio, una verde collina sullo sfondo ed un paio d’uccelli che si librano nel cielo azzurro, completano il mio capolavoro. Penso che la scelta dei pastelli ad olio sia stata azzeccata, particolari e sfumature risultano plasmati in maniera soddisfacente ed alle undici e venti, in clamoroso anticipo, consegno il disegno ritenendomi soddisfatto. Sono stato uno dei primi e noto che Feo è ancora intento nella realizzazione della sua opera d’arte: intravedo la spiaggia, il mare, qualche ombrellone. Scambio due chiacchiere con il prof che, al solito, si dimostra molto disponibile ed alla mano e si lascia sfuggire un commento favorevole nei confronti della mia tavola: la considera un po’ troppo essenziale ma in tema con il titolo proposto e ben rappresentativa. Chiedo il permesso di uscire. Permesso accordato. “Feo, sbrigati.” – lo sollecito col pensiero.
Mattinata totalmente rilassante, niente a che vedere con quello che si profila sull’orizzonte della settimana prossima.
Nella sequenza delle interrogazioni sarò uno degli ultimi, ed il programma prevede che venerdì prossimo sarà il mio turno, mentre Feo se la sbrigherà con ventiquattro ore d’anticipo.
I giorni passano inesorabili e la preparazione per l’esame procede a ritmo spedito, ormai mancano solo gli ultimi ritocchi. Una pausa domenicale ci consente di ritrovarci alla spiaggia con gli amici del paese e rinfrancare l’intelletto dalle fatiche di questo micidiale tour de force. Siamo una quindicina in tutto, in maggioranza ragazzi: due calci ad un pallone, una nuotata nel mare pulito che rinfresca dalla calura e qualche minuto disteso al sole ad occhi chiusi con le braccia incrociate sotto la nuca. La sabbia finissima e tiepida si plasma sotto l’asciugamano in seguito alla pressione esercitata dal mio corpo. Un’ombra mi copre parzialmente l’astro luminoso.
“Sarà un aquilone” – immagino.
Non si sposta. Apro gli occhi. Martina si è seduta accanto a me con le gambe raccolte, ha appoggiato la mano destra sul bordo dell’asciugamano, dalla parte opposta, facendo ponte sopra di me col proprio corpo e mi guarda. Senza proferire parola, con l’altra mano strizza le punte dei capelli lunghi e bruni affinché l’acqua salmastra goccioli sul mio ventre all’altezza dell’ombelico, dove si forma una minuscola piscina. Nella suggestiva immagine generata dal controluce mi accorgo d’inquadrare la figura di Martina in una cornice diversa dal solito. Che novità è questa? Martina: amica d’infanzia, vicina di casa, compagna di giochi. A scuola nella stessa classe per tutte le elementari. Martina: occhi grandi, ciglia lunghe, iridi castane, viso ovale, collo slanciato. Sull’esile corpo indossa solo un bikini turchese bordato di bianco, che spicca sulla pelle il cui colore ricorda la nocciola, e non solo per l’abbronzatura. Una corta catenina d’argento oscilla tra il mento e la base del collo, e culla ritmicamente il mio sguardo come un’altalena.
“Ma guarda quant’è cambiata!” – è la prima cosa che mi viene in mente.
Senza che me ne sia accorto, la bambina che conoscevo è stata rimpiazzata da una graziosa signorina. Mi piace! Non mi sembra il caso di domandarmi il perché prendono corpo certe situazioni ed esito nell’attesa di una nuova mossa. Martina si china e, con mia gradevole sorpresa, appoggia la bocca sulla mia guancia sinistra in un tenero bacio. Si tira su e continua a guardarmi. Ricambio con una carezza che lei dimostra di accettare con piacere. Asseconda l’iniziativa nel chinare la testa da una parte, finché la sua guancia occupa pienamente l’incavo del palmo della mia mano semiaperta. Mi metto seduto e continuiamo a guardarci. Il resto della banda sembra ignorarci, almeno finché rimaniamo seduti ma, come ci alziamo in piedi, la spiaggia si ferma ed un riflettore ad occhio di bue punta inesorabile su di noi ergendoci a protagonisti di un’imprevista e magica rappresentazione. Gli altri ci adocchiano e sorridono maliziosi, ma chi se ne importa. Il sole volge al tramonto, quando decidiamo di rivestirci ed incamminarci verso casa. Lungo la via del mare ci teniamo candidamente per mano e scambiamo le impressioni sulla giornata appena trascorsa, senza cercare spiegazioni per quello che è successo tra noi. È stato così naturale! Il resto del gruppo urla e schiamazza come al solito, con Feo e Flipper che dirigono le operazioni. Alla spicciolata il gruppo si assottiglia e, in piazza, anche noi due ci dirigiamo verso casa. Prima di voltare l’angolo che ci porterà sulla via dove si affacciano le nostre abitazioni, spontaneamente mi arresto e Martina fa altrettanto, faccio in modo che rivolga lo sguardo verso di me finché le bocche si sfiorano in un innocente e fuggevole bacio a labbra socchiuse. Un brivido mi percorre fulmineamente la schiena. Sorridiamo felici. Pochi passi e la lascio al cancello del giardino di casa sua. Ci salutiamo come se niente fosse, con l’intento di nascondere i nostri sentimenti ad occhi curiosi ed indiscreti di pettegole comari che sbirciano da dietro le tendine delle finestre.
Nei giorni successivi, mio malgrado, sono costretto a dedicarmi agli esami anima e corpo ed anche gl’incontri con Martina sono meno che saltuari. Lei ha la prova orale mercoledì e, quindi, si toglierà il dente prima di me. Tre giorni di fuoco: mercoledì Martina, giovedì Feo, venerdì io.
Venerdì. Sull’autobus che mi porta a scuola penso a Martina, che mi ha raccontato di aver fatto una buona figura e questo mi solleva. È confortante che anche Feo si sia comportato bene. Alle dieci e un quarto entro nell’aula dove i professori sono schierati dietro una diga di banchi disposti a ferro di cavallo. Sonia sta sostenendo l’esame, mi siedo ed ascolto, con piacere, che se la sta cavando egregiamente. È tra le grinfie di quella di Francese: dovrebbe essere agli sgoccioli. Pochi minuti e la Rossa, che occupa la postazione più a sinistra, m’invita ad accomodarmi sulla sedia di fronte a lei:
“…Ma come, Sonia non ha ancora finito” – mi lamento mentalmente con me stesso. Le mie facoltà intellettive subiscono un temporaneo black out dal quale, per fortuna, mi riprendo prontamente.
Omero, Calvino, Marinetti: le domande spaziano nell’ambito del vasto programma d’Italiano. Dopo un’esposizione caratterizzata da alterne fortune, passiamo alla Storia: Fascismo, Seconda Guerra Mondiale, Patriottismo e fondazione della Repubblica. Sono leggermente in affanno. Si passa a Geografia: Canada. Niente male!
«Per me può bastare!» – annuncia, annotando qualcosa su un registro aperto. Sospiro.
Sposto il mio raggio d’azione un metro verso destra dove la mia prof preferita sta piazzando i paletti per uno slalom gigante, tra un teorema, un corollario, parallelepipedi, coni e formule varie, tra i quali mi destreggio piuttosto abilmente.
«Te lo lascio…» – dice rivolgendosi alla sua destra.
«Bonjour!»
«Bonjour a vous!» – rispondo io.
Si rammenta delle mie difficoltà sulle abitudini alimentari dei nostri cugini francesi, ma questa volta non ci casco e la sommergo a suon di croissant, soupe de asperges, viande a la grille, pate de foie gras, lapin, fromages e chi più ne ha più ne metta. Rispondo egregiamente ad una semplice domanda su Robespierre ed una su Place de l’Etoile, recentemente ribattezzata Place Charles De Gaulle, e cambio di nuovo la postazione.
Ho concretamente superato i valichi più difficoltosi e procedo spedito verso il traguardo. Le altre materie sono una pura formalità.
«Si accomodi pure!» – l’ultimo della fila, lo scultore, per esigenze di forma, mi congeda con un insolito lei, ma non rinuncia ad un’ilare smorfia del viso, accompagnata dalla mano destra chiusa a pugno con il pollice in alto in un rassicurante, esotico “OK”.
Raggiante scendo le scale di corsa ed esco sul piazzale dove, imprevedibilmente, Martina mi sta aspettando. I lineamenti del volto sono tesi, ma si distendono nel momento in cui nota la mia soddisfazione per aver finalmente concluso la faticaccia. Un attimo di comprensibile smarrimento, dovuto allo stupore di trovarmela di fronte, poi la gioia prende il sopravvento, lei mi corre incontro, io incontro a lei, mi salta al collo e la avvolgo in un vigoroso abbraccio che mi libera definitivamente dallo stress del periodo appena trascorso. Appoggia la fronte contro la mia, poi se ne distacca, mi guarda negli occhi:
«Finito?»
«Finito!» – replico io con un sospiro. E c’incamminiamo verso la solita pensilina dove il fedele autobus ci preleverà per condurci a casa.
Nei giorni che seguono assaporiamo i piaceri di un assoluto riposo, oziando, prevalentemente sulla spiaggia. Martina ed io ci scopriamo molto affiatati e, nel frattempo, c’è scappato anche il primo bacio vero, inesperto ma vero, insaporito dalle incertezze e dalle paure caratteristiche della giovanissima età. È successo l’altra sera, a mezzanotte, nella penombra del giardino di casa sua, a ridosso del grande tronco di un pino quasi secolare. Fantastico!
La mattina in cui vengono esposti i risultati, ci rechiamo in massa a scuola dove la bacheca è ancora vacante. Capannelli di ragazzi consentono d’individuare le varie sezioni e le facce dei protagonisti sono visibilmente più distese, dall’ultima volta che ci siamo visti. Anche Nanni è della partita, fedele fino all’ultimo alla terza “A”. Pochi minuti e la bidella apre il portone annunciando di aver appeso i quadri con i risultati: la ressa è generale. Mi faccio largo a spintoni cercando di proteggere anche l’avanzata di Martina che, di statura poco più bassa della mia ma di corporatura minuta, rischia di essere travolta nel pigia-pigia generale. Frugo con lo sguardo all’interno della bacheca alla ricerca del tabulato riguardante la terza “A” e finalmente lo trovo. Scorro l’elenco: eccomi. Buono! Il giudizio non è come mi aspettavo, ma va bene lo stesso. Forse la prof d’Italiano non ha apprezzato l’iniziativa del novello pubblicitario, o forse non mi sono espresso bene nella prova di Francese. Escludo a priori la possibilità di un qualsiasi errore a Matematica.
Neanche Feo sembra soddisfatto del giudizio ricevuto, identico al mio, mentre Martina si gode beatamente il suo Ottimo che ha rispettato in pieno le previsioni. Entrambi, comunque, concordano con me che, qualunque sia stato il risultato, è andata, ed è la cosa più importante.

domenica 13 maggio 2012

terzo 2 di 3

Terzo – 2/3
La mattina dopo, alla fermata dell’autobus, Feo è già lì con lo zaino dei libri tra i piedi.
«Quanto fa due più due?» gli chiedo prima ancora di augurare il buongiorno.
«Cinque!» risponde lui non risparmiandomi un’occhiataccia, poi sorride e mi rendo conto che la crisi è passata.
Con l’autobus arriviamo puntuali davanti alla scuola. Puntuale anche la campanella delle otto e venti. Nanni oggi non è venuto: è rimasto a dormire.
Occhi dolci ci aspetta sulla porta dell’aula: indossa un abitino rosso a pois neri di tessuto finissimo, abbastanza scollato sul davanti, ma senza mettere in mostra niente di compromettente. Un girocollo di perlelezioni-di-matematica-e-geometria_1.jpg candide adorna il bel collo da cigno. I capelli biondi raccolti sulla nuca conferiscono ancora più luminosità al suo già radioso volto sul quale spiccano gli occhi celesti impercettibilmente truccati. “Eh! Avesse una ventina d’anni in meno!!!”
Ci fa accomodare ai nostri posti rimanendo vigile sulla porta della classe, dopodiché entra a sua volta, esterna gli auguri di rito ed apre la busta fatidica provvedendo alla trascrizione del compito alla solita lavagna. Nel corso dell’operazione, i procedimenti per risolvere i vari esercizi prendono corpo nella mia mente e, auspicando di non commettere errori di distrazione, non dovrei incontrare particolari problemi.
La prof distribuisce la canonica coppia di fogli protocollo a quadretti piccoli, immancabile la vidimazione del Ministero della Pubblica Istruzione in alto a destra, con la raccomandazione, per noi non nuova, di consegnarli entrambi, anche se stropiccicchiati per usare un termine da lei adoperato spesso. Aggiunge che la tentazione di copiare è ovviamente fortissima, al compito di Matematica, e perciò ci raccomanda di dimostrare la nostra determinazione e forza di volontà vincendo la stessa tentazione e portando a termine il lavoro in maniera regolare.
«Ritengo superfluo ricordarvi quale sarà la sanzione, nel caso in cui qualcuno venga beccato…» – sono le sue ultime parole prima di augurarci un buon lavoro.
Un’occhiata alla classe, un rapido ammicco con Feo, che abbozza una simpatica smorfia a conferma che la crisi della sera precedente è solo un ricordo, e, di gran carriera, a bordo della fida Bic, prendo il via sul foglio protocollo, lungo un immaginario circuito disseminato di figure geometriche, numeri, calcoli, radici quadrate e parentesi dalle forme più bizzarre.
Sfreccio velocemente tra equazioni e sistemi la cui risoluzione è una pura formalità, mentre un imprevisto inconveniente di carattere tecnico mi attarda nell’impostazione del problema di geometria. Una rapida sosta agli immaginari box, tanto per riordinare le idee. Una piramide, a base quadrata, è stata perfidamente tagliata, ad un’altezza nota, da un piano inclinato di trenta gradi e trovarne il volume e la superficie totale mi crea non poche difficoltà. La rappresentazione grafica è buona, ma la strada per raggiungere i dati sufficienti si presenta irta di scabrosità che, al momento, mi sembrano insormontabili. Scompongo la figura e la ricompongo. Feo sta andando avanti di buona lena, beato lui! Mi prende il panico. Non ci riesco. Comincio ad elucubrare su quanto potrebbe incidere la mancata risoluzione dell’esercizio. Forse non troppo, visto che ho risolto più di metà del compito, ammesso che abbia svolto tutto senza il minimo errore… Una piccola imprecisione su ciò che ho già fatto potrebbe costarmi cara, se non risolvo il problema di geometria. Sono quasi alla disperazione. Passano inesorabili i minuti, forse è già passata mezz’ora, da quando mi sono bloccato. Non ce la farò mai. Feo ha notato il mio comportamento e, con un calcio di sottobanco, attira la mia attenzione. Con un cenno della testa e della mano mi chiede cosa c’è che non va! Io mi accerto che occhi dolci non mi veda, poi muovo le labbra senza emettere alcun suono, ma ciò che voglio dire è inequivocabile:
«La piramide… panico».
«Non ti angosciare, al massimo ti bocciano» – mi dice lui, con lo stesso sistema, rendendomi pan per focaccia.
Sorride sotto i baffi. Lo mando a quel paese. Non siamo riusciti a nascondere totalmente il nostro, pur breve, scambio di sensazioni ed un «Allora…..!» tonante scuote la classe. Rivolgiamo le teste verso la cattedra e gli occhi non più dolci hanno assunto un’aria severissima capace di congelare le fiamme dell’inferno. Una vampa di calore mi avvolge il viso, probabilmente sono arrossito per la vergogna, sollevo lievemente la mano all’indirizzo della prof, in un cenno di scusa, e mi rinchiudo nel mio angolo di disperazione. Calma! Calma e sangue freddo! In fondo, è solo un problema di geometria, ne ho risolti a migliaia, anche di più difficili. Manca ancora più di un’ora alla campanella. Un imperativo: ripartire da capo, dall’enunciato del problema. Uno scarabocchio gigante e rabbioso annulla le operazioni effettuate fino a quel momento, prendendo per buono solo il disegno della figura geometrica, che è venuto piuttosto bene. Rileggo il testo con attenzione. Analizzo la figura ed i dati a disposizione. Niente di nuovo. Alzo la testa verso la cattedra. Lei sta sfogliando una rivista, distoglie lo sguardo ceruleo che compie un rapido giro sulle teste chine dei suoi ragazzi. M’individua, assorto nella ricerca di una soluzione dell’arcano. Gli angoli della sua bocca si curvano verso l’alto in un aperto sorriso ed il temuto sguardo austero di qualche minuto innanzi, a dire il vero inevitabile, si è magicamente dileguato. Una lampadina si accende nella mia testa come all’Archimede Pitagorico dei noti fumetti di Walt Disney. Per l’ennesima volta, scompongo mentalmente la figura, ma questa volta percepisco che è quella buona. Per la superficie totale basta considerare un quadrato come base inferiore, un trapezio isoscele come base superiore, altri due trapezi isosceli e due trapezi scaleni per la superficie laterale. Il calcolo del volume è un po’ più complesso: tronco di piramide tagliata da un piano orizzontale e, sulla vetta, un parallelepipedo a base triangolare e due piramidi, anch’esse a base triangolare. Le jeux sont fait. Trasferisco sulla carta l’elaborato mentale e ritrovo la serenità. Sento su di me lo sguardo di Feo, che forse ha già finito. Mi volto verso di lui e faccio l’occhiolino: si avvede che ho finalmente trovato la soluzione ed agita il pugno in cenno di vittoria. Quasi all’unisono consegnamo gli elaborati e mi sciolgo allorché la prof mi chiede:
«È passata, la crisi?» Si è accorta di tutto. Non finisce mai di stupire. La rimpiangerò.
La ripago con un laconico: «Si!» dopodiché salutiamo ed usciamo dall’aula.
Percorrendo il corridoio e poi, scendendo le scale, confrontiamo, a memoria e con soddisfazione, i risultati dei vari esercizi: torna tutto alla perfezione. Franco, stavolta, è ancora in classe: lo aspetteremo sul piazzale. All’uscita alcuni dei nostri compagni fanno crocchio e sembra che il compito sia andato abbastanza bene per tutti. Qualcuno si lamenta per errori di calcolo, ma i procedimenti dovrebbero essere azzeccati. Passa un quarto d’ora e Franchino appare sul portone letteralmente stravolto. I suoi rapporti con la Matematica sono sempre stati di amore-odio e mi sa che oggi ha prevalso l’odio. Inizia a raccontare le difficoltà incontrate e, man mano che spiega, gli confermiamo che ha seguito i ragionamenti giusti. Ripresa fiducia, confronta i suoi risultati con i nostri e, a parte un “virgola qualcosa” nel volume della piramide maledetta, sembra che tutto collimi. Quasi inconsapevolmente, ha risolto in maniera corretta tutti gli esercizi. Non è nel suo carattere, ma se lo fosse, ci bacerebbe, come se il merito fosse nostro. …e due!
Il fedele autobus verde si affaccia all’angolo del fabbricato, salutiamo i compagni e ci avviamo alla fermata, saliamo ed i commenti sul compito proseguono ininterrotti. Oggi siamo molto più euforici. Potenza della matematica!
Dopo pranzo è previsto il ripasso definitivo per la prova di lingua straniera. Chissà la zoppetta che cosa ha in serbo per noi, nella prova di domani. Il pomeriggio e la sera scorrono in maniera lineare.
Stamattina, sull’autobus, i soliti musi lunghi e assonnati. Sembra di andare al patibolo.
Arriviamo in classe, ma la signorina ancora non c’è. Non è un bell’esempio per gli studenti, ma può succedere. Il Preside la sostituisce temporaneamente e dà inizio alla cerimonia d’apertura della busta contenente la prova di Francese. Non ha finito di aprire la busta che percepisco un passo lesto, ma irregolare, proveniente dal corridoio ed in breve la prof, ansimante e con la mano destra al petto, appare sulla porta dell’aula. Si scusa con tutti ed in particolare col “Signor Preside”, come lo chiama lei, ma un’avaria alla sua vecchia Peugeot, un macinino d’ante guerra, ha provocato questo piccolo ritardo.
È, come al solito, ipertruccata per mascherare le rughe di una veneranda età: chili di fondotinta, capelli abbastanza corti e ricci, tinti di un nero corvino da far invidia alla Moira Orfei, una catena al collo che se fosse d’oro costerebbe l’ira di Dio ed un paio di orecchini giganteschi, anch’essi d’oro o dorati, completano la fotografia della nostra Mademoiselle de Francais.
Il preside si allontana silenziosamente dalla cattedra e, altrettanto silenziosamente, esce dalla stanza.
«Le bonjour à tous le monde et au excusé ancor mon retarde. Je veux présager un bon examen de Francais à vous, espérant que vous tous êtes recalé, et une bonne continuation dans les votre études.»La solita ramanzina di non copiare, non disturbare eccetera, eccetera, eccetera e finalmente si va. Il testo, questa volta, è su fogli ciclostilati e ci viene consegnato, coperto, personalmente dalla prof che zampetta tra le file di banchi. Quando tutti abbiamo la nostra copia e due fogli protocollo a righe, il tutto guarnito dal consueto timbro in rilievo del Ministero competente, ci è permesso di prenderne visione ed iniziare a lavorare. La prima prova consiste nel partecipare, replicando in maniera adeguata, ad una conversazione durante una passeggiata, con un immaginario amico parigino, sul Boulevard Saint Germain, proprio a Parigi, descrivendo immaginarie vetrine di negozi, locali, stazioni della metropolitana, monumenti e tutto quanto si può incontrare nel quartiere latino, compresi mendicanti e, soprattutto, artisti di strada. Mi soffermo su una coppia che si esibisce nelle vicinanze di un multicolore chiosco di fiori. Nella mia descrizione, l’uomo, abbigliato con frac e cappello a cilindro, suona magistralmente il violino, mentre la ragazza, che impersona uno dei più classici Pierrot dalla faccia infarinata, asseconda la melodia con movenze plastiche ed armoniose.
Il compito prosegue con un’esposizione sulla caduta dell’Ancien Regime e la presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789.
E per finire, niente di più classico: Jean de La Fontaine: l’aquila e la civetta, la cicala e la formica, il lupo e l’agnello, il congresso dei topi, insomma un commento circostanziato sulle favole del de La Fontaine e le loro morali, con particolare riferimento agl’insegnamenti pratici che se ne possono trarre.
Insomma, noioso come non n’erano mai capitati prima! Strascico sul foglio protocollo la penna biro che asseconda fedele il movimento svogliato della mia mano destra e, tra un sospiro ed un sommesso lamento, raggiungo l’agognata conclusione del mio lavoro di oggi. Una rapida riletta e mi rendo conto che non è un gran che, ma decido di affidarmi alla magnanimità del collegio giudicante. La sufficienza dovrei raggiungerla comunque.
Non vedo l’ora di lasciare l’aula, per questo consegno senza aspettare che Feo completi la sua prova, chiedo l’autorizzazione alla prof e mi avvio verso la porta. Scambio un cenno d’intesa con l’amico, ancora chino sul compito, ed esco.
Piuttosto a terra, non tanto per la prova sostenuta, che peraltro dovrebbe raggiungere almeno la sufficienza, quanto per la noia suscitata dagli argomenti della prova stessa, scendo lo scalone e mi ritrovo sul piazzale della scuola. Il solito capannello dei compagni di classe circoscrive una disamina sull’operato di questa mattina e mi accorgo dello scarso entusiasmo che aleggia nell’aria. Evidentemente siamo concordi nel considerare la prova di lingua straniera scarsamente interessante ed ancor meno coinvolgente. Mi unisco all’avvilita compagnia in attesa che Feo e Franco ci raggiungano per intraprendere insieme il viaggio di ritorno a casa con il mitico torpedone protagonista del nostro andirivieni scolastico degli ultimi tre anni.
Sull’autobus, lo scoramento si placa gradualmente e, visto che la mattina successiva ci aspetta la prova di Educazione Artistica, indiscutibilmente poco impegnativa, decidiamo di prenderci un pomeriggio di pausa e concederci un po’ di svago.

venerdì 9 marzo 2012

terzo 1 di 3

Terzo – 1/3
14 giugno 1972, Scuola Media Statale “Dante Alighieri”. All’ombra di platani secolari, di fronte al porticato a quattro arcate, più di centocinquanta ragazzi quattordicenni, a parte le poche eccezioni di ripetenti ed il Pupo della terza “G” che compirà diciotto anni a settembre, ma lui non fa testo, sono ammassati fuori del portone ed attendono agitati il trillo della campanella. La nostra classe ha risposto in massa all’appello e, sotto le fronde di uno dei grandi alberi, siamo radunati a scambiarci le impressioni sulle inquietudini che ci hanno accompagnato nell’ultimo periodo e sulla notte appena trascorsa. Io, stranamente, sono piuttosto disteso. licenza media, esame tema, italiano, dentifricio, pubblicitàPurtroppo dobbiamo renderci conto che Nanni non è della compagnia, quest’oggi. Durante l’anno ha incontrato delle difficoltà per lui insormontabili, o forse non si è impegnato abbastanza, come ammetterà lui stesso, e si è perduto per la via. Non ha retto lo scontro con la Matematica, l’Italiano, il Francese che gli hanno giocato un tiro mancino e non è stato ammesso all’esame. Che peccato! Dispiace che non sia della partita.
Sorpresa! Paonazzo in faccia per lo sforzo, con le ruote della bici che slittano sulla cedevole ghiaia del piazzale, l’uragano Nanni si abbatte sul gruppo, impetuoso come un cavallone sulla battigia in una giornata di Libeccio. Abbracci, baci, pacche sulle spalle. E chi se lo aspettava! In un baleno, le facce, fino a quel momento seriose, si aprono in gioviali sorrisi.
«Ragazzi, non gliel’ho fatta a rimanere a casa! Non potevo mancare. Tre anni passati a condividere la stessa stanza… Non siate giù, me l’aspettavo, durante tutto l’anno scolastico non ho fatto niente per evitarlo.»
Questo è lo spirito di Nanni, il più pacioccone tra i compagni di classe, noi dovremmo consolarlo ed invece è lui che consola noi.
«Mi mancherete. Mi mancheranno le sbirciate verso Sonia.» – ed ammicca malizioso verso il prorompente davanzale della nostra compagna messo in risalto dall’attillata maglietta di cotone.
«Dovrò fare a meno delle gomitate di Stecco, fedele compagno di banco, durante la lettura di un passo dell’Odissea o di una poesia del Pascoli: chi mi sveglierà l’anno prossimo, se mi addormento tra un verso e l’altro?» ed indica l’amico magrissimo.
«Mi mancheranno soprattutto le litigate con Fulvio.» – ed accenna, all’indirizzo della mascella del compagno-avversario, un diretto destro che sfocia in un abbraccio quasi fraterno.
Diventa serio, e noi con lui.
«Solo ora mi rendo conto che, se mi fossi impegnato appena un po’ di più, magari per il rotto della cuffia, avrei potuto provarci anch’io. Bene! Ora non mi deludete:» – urla – «andate e fateli neri!» Il grande Nanni emerge di nuovo – «Io mi rifarò l’anno prossimo. Farò da babbo ai miei nuovi compagni. I piccinaccoli!»
Driiiiiin! Il trillo della campanella ci coglie di sorpresa, intenti com’eravamo a dare a Cicciobello la soddisfazione che merita.
La bidella ha premuto il pulsante alle otto e venti precise e la massa si muove in un’unica direzione invadendo l’androne e poi le scale destrorse. Nanni ci saluta appoggiato al tronco del platano. Dalla finestra del mezzanino lo vedo che inforca la bicicletta e si allontana mesto. Al primo ed unico piano del fabbricato, una vetrata separa il pianerottolo delle scale dal corridoio della scuola. Sulla destra è situato il bancone a ferro di cavallo che fa da quartier generale alle custodi. La terza “A” si dirige da quella parte ed io con lei, nell’aula in fondo al corridoio che per tre lunghi anni è stata palcoscenico delle vicende scolastiche dei ventitré protagonisti di questo giorno importante. “Avremmo potuto essere uno in più e fare l’en plein” – mi suggerisce un ultimo pensiero rivolto a Nanni.
In classe ci attende la rossa d’Italiano, agghindata con un tailleur di lino beige con grandi bottoni d’osso, che dalla cattedra ci osserva compiaciuta, con le mani in mano, mentre ci accomodiamo ognuno ai rispettivi banchi. Feo ed io siamo al terzo banco, il penultimo della fila centrale, quella proprio davanti alla cattedra. Io occupo il posto di destra, lui quello di sinistra. Franco è all’ultimo banco della fila vicino all’unico finestrone, alla nostra sinistra, con la porta alle spalle e di faccia alla lavagna. Inevitabili i rumori d’assestamento delle sedie, che accoglieranno i nostri fondo-schiena per tutta la mattinata, di cartelle che si aprono, di vocabolari che si dispongono sui banchi e di penne che scattano in attesa di compiere il loro dovere. Il discorso d’apertura spetta alla prof, che ci augura un buon esame mentre distribuisce, a ciascuno di noi, due fogli protocollo vidimati con un timbro in rilievo del Ministero della Pubblica Istruzione, con l’avvertenza di restituirli entrambi anche se scarabocchiati. Consiglia di usarne uno per la brutta copia e l’altro per la bella. Apre la busta con i titoli dei temi da svolgere e li trascrive, in bella calligrafia, sulla lavagna nera.
Le ultime raccomandazioni:
«Ragazzi, ritengo superfluo suggerirvi di non copiare. Non ci provate con i temi già svolti. Se qualcuno di voi ha con sé un volume con temi del genere, apprezzerò molto se me lo consegna adesso e non ci saranno conseguenze alcune sull’andamento e sulla valutazione dell’esame. Come immaginerete, atteggiamenti del genere possono portare alla spiacevole sanzione d’annullamento del compito. Sono certa che non è il caso vostro, ma sono costretta a farvi queste raccomandazioni, come previsto dal cerimoniale. Un consiglio: scambiatevi pure delle opinioni, durante lo svolgimento, ma non esagerate, potreste arrecare fastidio ai compagni, concentrati sul loro lavoro, e potreste minare la vostra concentrazione. In bocca al lupo!»
In coro: «Crepi!» e si comincia.
Piego longitudinalmente i fogli a metà, in modo che ogni facciata sia costituita da due colonne, ed esamino i titoli alla lavagna: uno di storia, uno d’attualità, ed il terzo di letteratura.
M’invade la consueta angoscia da compito d’Italiano e sono combattuto tra l’analisi del ruolo di Garibaldi nell’Unità d’Italia ed il vestire i panni di un novello Pubblicitario che promuove insostituibili prodotti. Scarto a priori le considerazioni sull’Ermetismo Italiano da Ungaretti a Quasimodo.
Ponderare bene e scegliere l’argomento giusto senza dar luogo ad uno dei soliti rimpianti! Un imperativo assoluto: vietato andare fuori tema!
Un rapido sguardo vaga per la classe. Tutti assorti nella contemplazione della lavagna ed anche Feo appare indeciso ma, se lo conosco bene, probabilmente la sua preferenza ricadrà su Garibaldi e le sue mille camicie rosse.
Ho scelto. Vado per il pubblicitario e brevetto un dentifricio il cui nome è tutto un programma: Sanident. Mi avvalgo del ricordo di alcune caratteristiche riportate sulle confezioni e sui tubetti che hanno transitato nel mobiletto del bagno di casa mia e, in un cocktail di ragionamenti, le amalgamo con le notizie fornite dai filmati pubblicitari della televisione. Il gioco è fatto. Abbasso la testa e la fedele Bic dal fondo rosicchiato scorre sul foglio protocollo a righe come un bob a quattro alle Olimpiadi invernali, lasciando promettenti scie d’inchiostro blu scuro. La mia creatura è a base d’essenze di menta ed eucalipto, contiene fluoro a volontà ed un’innovativa sostanza, la lucidina, che rende i denti bianchi e splendenti degni del più smagliante sorriso da sfoggiare in un filmato di Carosello. Il rivoluzionario composto è inoltre un anti-tartaro per eccellenza che reagisce drasticamente con le molecole di calcio e sali derivati, contenute nella saliva, nell’acqua e nei cibi in genere. Ma il fiore all’occhiello del mio dentifricio è l’azione antisettica della lucidina che previene in maniera assoluta la formazione della placca batterica e dell’inevitabile carie dentale. Sulla confezione, bianca con ghirigori gialli, arancioni e rossi, è raffigurato un affabile coniglietto, anch’esso bianco, con i grandi incisivi candidi in primissimo piano ed uno spazzolino da denti rappresentato di tre quarti. Nel filmato pubblicitario a cartoni animati, due coniglietti gemelli, Sanny e Ronny, con l’effigie della mia mascotte, si sono da poco alzati dal letto e si apprestano a lavarsi i denti. Sul lavandino: due tubetti di dentifricio, il Sanident ed un altro qualsiasi. Ronny usa il dentifricio del tubetto qualsiasi, mentre Sanny presta attenzione a prendere quello del Sanident. Dopo una mattinata passata a giocare e saltellare spensieratamente per i prati, rientrano a casa dove la mamma ha preparato un pranzo a base di vari appetitosi ortaggi: sedani, finocchi, erba cipollina e le immancabili carote. All’unisono i due protagonisti si abbuffano ma, mentre Ronny vede le stelle a causa di un dolore lancinante che attanaglia la sua dentatura al primo morso dato ad una tenera costola di sedano, Sanny addenta senza alcuna difficoltà una carota gigantesca recitando lo slogan:
“Occhio per occhio, dente per dente.
Occhio a Sanident, o il dente è perdente!”
…mentre la confezione del dentifricio passa in primo piano sullo schermo televisivo ed una voce fuori campo recita:
“SANIDENT. Il modo migliore per la protezione
e lo splendore dei suoi e dei tuoi denti.”
“Va bene, va bene, come slogan non è il massimo, ma ne ho sentiti di peggio alla televisione!” – rimugino.
La brutta copia sembra un campo di battaglia dopo il passaggio del fronte, con fregi, cancellature, scarabocchi, riporti e tutto il resto, ma sono piuttosto soddisfatto, nella speranza che pure la prof apprezzi. Giusto il tempo di ricopiare in bella copia, solo sulla colonna di sinistra delle facciate del foglio protocollo, che siamo arrivati quasi a mezzogiorno. Un bel po’ dei miei compagni ha già consegnato, compreso Franco. Feo non ha ancora finito, ma noto che oramai è agli sgoccioli. Aspetto pochi minuti che anche lui concluda il suo componimento e, quasi contemporaneamente, consegnamo entrambi i fogli utilizzati, dopodiché riponiamo penna e vocabolario nei rispettivi zaini, ce li mettiamo sulle spalle e, con l’autorizzazione dell’insegnante, ci avviamo verso l’uscita.
…e la prima è andata!
Nel cortile della scuola incontriamo di nuovo Franco che ci sta aspettando, ci soffermiamo a commentare il compito con gli amici, ma, nel frattempo, vediamo arrivare l’autobus che deve riportarci a casa, quindi salutiamo tutti, nell’attesa di rivederci la mattina successiva.
Poche parole ci sfuggono nel breve tragitto dell’autobus da scuola a casa, e vanno poco oltre la comunicazione reciproca del titolo del tema scelto: siamo ancora spossati dalla mattinata stressante.
Feo saluta e scende dalla porta anteriore dell’autobus, Franco ed io scenderemo tra due fermate e c’incammineremo in direzioni opposte per raggiungere le rispettive abitazioni.
A casa il pranzo è pronto, mi siedo a tavola e mangio di gusto, mentre riassumo, in poche parole, il contenuto del mio tema incontrando l’approvazione di mia madre. Una breve pausa di relax sul terrazzo e mi butto di nuovo sui libri, per gli ultimi ritocchi prima del compito di Matematica di domani mattina.
Il pomeriggio scorre lentamente tra quaderni a quadretti ed esercizi presi dalle ultime pagine del libro di testo. Verso le sei e mezzo il campanello del portone trilla: è Feo, completamente nel panico.
«Non ricordo più niente. Mi sono provato a fare mille esercizi e non ne ho finito neanche uno. Come si risolvono i sistemi a due incognite? …e le radici quadrate? Mi sono dimenticato perfino il Teorema di Euclide! Per me è finita!»
Classica manifestazione di stress-da-esame. Feo ed io abbiamo sempre avuto risultati più che soddisfacenti a Matematica, per cui non c’è motivo di preoccuparsi.
«Non ti angosciare, al massimo ti bocciano» – rispondo cercando di sdrammatizzare, mentre mi alzo in piedi. Feo mi guarda con aria stralunata. Poi la sua espressione s’incupisce, strabuzza gli occhi, diventa rosso in faccia e mi assale impetuosamente come se volesse uccidermi, mentre me la rido spudoratamente cercando di parare il colpo.
«Bell’amico, sei! Io sono nel dramma e tu mi prendi in giro!» E giù botte. «Ci ridi pure sopra!» Mi difendo come posso dal ciclone, continuo a ridere e, nel parapiglia, finiamo su una delle due poltrone allorquando, finalmente, Feo si calma.
«…e ora che cosa m’invento per domani? Un repentino colpo di spugna ha cancellato dal mio cervello tutte le cognizioni di Matematica, come una cimosa pulisce la lavagna. In queste condizioni potresti persino convincermi che due più due fa tre.»
Cerco di tranquillizzarlo, ma non è facile.
«Andiamo a fare due passi, prima di cena?»
«Va bene!» – risponde.
Passiamo un’oretta a spasso per le stradine del nostro quartiere ed affrontiamo molti argomenti, tra cui l’esame, ovviamente, l’ultimo scudetto, ovviamente della Juve, con il nostro Milan che si è classificato al secondo posto, e qualche commento sulle ragazzine del paese. Incontriamo un po’ di gente, ma nessuno che valga la pena di coinvolgere nella nostra conversazione: ci limitiamo a saluti di circostanza e proseguiamo nella rinfrancante passeggiata. Tra un discorso e l’altro si avvicina l’ora di cena, Feo è più tranquillo e mi auguro che la passeggiata abbia ripristinato le sue cognizioni matematiche. Siamo giunti di nuovo al cancello di casa mia e qui ci salutiamo dandoci appuntamento a domani, alla fermata dell’autobus. Cena, un po’ di televisione con i miei e poi a letto, a riposare le membra, ma soprattutto i neuroni, in vista della seconda prova d’esame.

domenica 22 gennaio 2012

secondo 2 di 2

secondo – 2/2
Finito di mangiare scendo di corsa le scale, inforco la bici, una Viner superleggera celestino pallido da vero ciclista, e, come una saetta, arrivo a casa di Feo che si gode il sole sulla poltrona del terrazzo vicino al nonno, un ometto simpatico che spesso ci allieta con sardoniche battute. Feo scende in giardino. Io rimango in bicicletta, seduto sulla canna, il piede sinistro sul pedale, il destro per terra e le braccia conserte, appoggiate sul manubrio d’alluminio foderato di nastro telato in tinta col colore della bici. Feo posa gli avambracci sulla traversa del cancello di ferro battuto nero che ci separa. Appoggia il mento sui pugni chiusi disposti a piedistallo:
«Come stai?» – mi chiede.
«In forma smagliante e tu?»
«Mai stato meglio. Ma… Ha telefonato Franco.» – sorride furbescamente – «La serata ha avuto il suo effetto. O forse la birra ha avuto il suo effetto. Non ha mai dormito. Ha vomitato, ed è ancora a letto col mal di testa. Ha detto che oggi non esce, non studia e non fa niente, cercando di recuperare le forze».
… … …
Ci scambiamo uno sguardo complice e ci abbandoniamo ad una fragorosa risata: sul terrazzo si scuote perfino il nonno che si volta verso di noi con aria interrogativa.
«Non è niente, nonno, continua pure la tua siesta!»
«Perché ridi? Sta male davvero!»
«…e tu perché ridi?»
«La bionda spumeggiante ha fatto un’altra vittima.»
«La sera… leoni e la mattina… coglioni, recita un vecchio adagio.»
«Era il più entusiasta, quando ha visto lo Zingaro avvicinarsi al nostro tavolo con le bottiglie, ed è stato anche il primo che ne ha visto il fondo. “questa bottiglia è bucata” – diceva – “portane un’altra”».
«Meno male che lo Zingaro ha badato a tenerlo a freno, limitando adeguatamente la fornitura di birra.»
«Prima di rientrare, la notte scorsa, sulla panchina, aveva dato i primi segni di cedimento. Ha appoggiato la testa sulla mia spalla e, mezzo addormentato, mi avrebbe sbavato sulla camicia come una lumaca in agosto, se non fossi stato lesto a tirarlo su!»
«Io l’ho appena assaggiata».
«Io pure».
«Non ho voglia di studiare, con questa bella giornata!»
«Nemmeno io ce l’avrei, ma purtroppo…»
«Due tiri al campino?»
«OK! Solo due tiri, poi a studiare!»
Mi lancia un pallone preso da dentro il garage, tira fuori la sua bici rossa, salta sulla sella, esce dal cancello e via, più veloci della luce. Al campino c’è già un bel po’ di gente, il nostro pallone non serve, ce n’è già un che ballonzola nei pressi di una delle porte.
Il campino, come lo chiamiamo noi, è il ritrovo omnistagionale dei ragazzi del paese appassionati di calcio e non. Se si eccettuano gli impegni d’ogni singolo per i rispettivi allenamenti con le selezioni giovanili della squadra locale, gli amanti della sfera di cuoio si ritrovano sempre lì. A qualunque ora del pomeriggio, il campino è il punto focale dell’attività ludico-sportiva paesana. È un prato, costituito da ciuffi d’erba variamente consistenti, intervallati a spiazzi di terra nuda responsabili dei ricami a carta geografica che decorano le nostre ginocchia ed i nostri gomiti. Pali, traverse di legno, tutt’altro che dritti, ed avanzi di rete da pesca trovati sulla spiaggia, costituiscono due strutture dall’equilibrio precario che vagamente assomigliano a porte di calcio. Inesistenti, ovviamente, le linee di demarcazione del campo: la discriminazione di quando è fallo laterale, calcio d’angolo o calcio di rinvio genera discussioni interminabili basate più sulla convenienza del momento che non sull’obiettiva analisi della situazione. È il nostro piccolo San Siro, lo Stadio Comunale dei Poveri, l’Artemio Franchi del mare che sfoggia quotidianamente accaniti derby paesani coloriti da sporadiche risse pacificamente acquietate con sollecitudine dai più grandi del gruppo. In mancanza di tribune, ogni tanto qualche gruppetto di ragazzine, in vena di mettersi in mostra, si schiera lungo le immaginarie linee di delimitazione del campo. In quelle circostanze le energie profuse dal singolo aumentano all’ennesima potenza per emergere sul gruppo e farsi notare dalle interessate ed interessanti spettatrici. I festeggiamenti, per un gol siglato alla presenza del gentil sesso, assumono proporzioni paragonabili alla vittoria nella finale della coppa Rimet di calcio. Fino a poco tempo fa era anch’io un assiduo frequentatore del campino, ma, col crescere, le presenze si sono gradualmente diradate, come per tutti i miei coetanei, fino a diventare quasi sporadiche. Un po’ mi dispiace.
Oggi la compagine è abbastanza nutrita e su tutti spiccano la divisa della Juve di Ghigo, con l’undici di Bettega, e gl’immancabili Beppino, con la maglia rosso-nera di Rivera, e Marco con quella verde-oro di Pelè, entrambe col numero dieci sulle spalle. Le bici sono comodamente coricate sull’erbetta dietro ad una delle porte e, simili a villeggianti avide d’abbronzatura, sembrano bearsi al caldo sole pomeridiano di giugno. Vicino ad un palo della stessa porta, magliette e leggeri giubbotti sono stati accumulati in una specie di guardaroba campestre. Ci aggreghiamo all’allegra compagnia che ci accoglie con entusiasmo. Via la maglietta. Un cross da destra, un colpo di testa, un cross da sinistra, una mezza rovesciata, chi fa gol va in porta, sfida ai rigori, gooool. Che caldo!
In men che non si dica siamo sudati come cavalli nelle sere d’estate all’ippodromo dopo la Coppa del Mare: sembra che siamo stati inzuppati nella vasca dei pesci, in piazza. L’arsura ci attanaglia la gola, la lingua sembra fatta di carta vetrata a grana grossa e gratta la volta palatina. Non ci resta che una rapida risciacquata ed una sontuosa bevuta d’acqua fresca alla fontanella del Comune, prima di fare ritorno a casa, dove ci aspettano i libri di scuola.
Ci sbracciamo in un saluto frettoloso e, al contrario della maggior parte dei ragazzi che rimane a giocare, Feo ed io inforchiamo i cavalli d’acciaio e ci avviamo verso le rispettive abitazioni.
Sistemo la bici in garage, dove il babbo, con un ampio grembiule grigio e lo scalpello in mano, è intento nei suoi lavoretti di tornitura del legno. Un bel lampadario, ricavato da un ciocco d’ulivo, è appeso in mezzo al soffitto del garage, una colonnina venata da striature scurissime si erge in un angolo e la miniatura di un seggio regale, appena lucidata, fa bella mostra sopra ad un ripiano nelle vicinanze. Un saluto e salgo le scale a tre scalini per volta.
«Sono rientrato!» – ad alta voce.
Dal terrazzo una specie d’eco rimanda qualcosa che assomiglia ad un saluto.
Camera mia, mi siedo alla scrivania di noce e non ho che l’imbarazzo della scelta tra i testi scolastici ed i quaderni allineati sulla libreria di fronte a me.
Vediamo… vediamo… Storia.
Tiro giù il volume e lo apro, ma, alle mie spalle, avverto dei passi felpati. Visto che a quest’ora del pomeriggio i ladri e gli scassinatori sono in pausa, non può essere che la mia sorellona. Lei è sposata da qualche anno e già un nipotino gironzola ogni tanto per la casa. La sua abitazione è vicina alla nostra, i giardini sono confinanti, ed è consuetudine vederci piuttosto spesso. Mi appoggia teneramente la mano grassottella sulla testa scarruffandomi un po’ i capelli. Poi la stessa mano scivola sulla mia spalla, mentre lei si accosta alla scrivania.
«Siamo vicini al grande momento. Sei preparato?»
«Credo di sì, ma ogni giorno che passa ne sono sempre meno sicuro. Ho l’impressione che più studio e più le cose mi passano di mente».
«È normale. Dai! Un ultimo sforzo e vedrai che quando l’esame sarà finito ti accorgerai che non è stato poi così difficile.»
«Me lo auguro.» Rivolgo la sedia verso di lei. «Tu come hai passato il periodo degli esami?»
Sorride.
«Nella pausa tra l’ultimo giorno di scuola e la prova orale, l’ultima dell’esame, quasi non dormivo più e mangiavo come un uccellino. La mamma era preoccupata, ma io avevo un irremovibile crampo alla bocca dello stomaco provocato dall’ansia che si era generata dentro di me. Leggevo, studiavo, ripassavo, impiegavo giornate e serate intere sui libri e, come te, sembrava che, col passare del tempo, disimparassi ciò che avevo appreso durante l’anno. E l’ansia cresceva col calare dei giorni che mi separavano dall’esame. Poi arrivò il dì a lungo indesiderato e le mie ansie si dissolsero. Il tema d’Italiano, il compito di Matematica, la prova di Francese insomma, le verifiche scritte e quelle pratiche non mi preoccupavano, quello che temevo, ovviamente, era la schiera di professori da affrontare tutti in una volta. Uscendo dalla scuola, dopo la prova orale, mi resi conto di quanto sciocco fosse stato preoccuparmi così tanto per una cosa di ordinaria amministrazione. Si è semplicemente trattato di un’interrogazione un po’ più lunga del consueto. Per questo il mio consiglio è di non preoccuparti, anche se so che non è facile.»
Nel frattempo fa il suo ingresso il marmocchio, che probabilmente si era intrattenuto con la nonna sul terrazzo, e mi affronta festante con l’entusiasmo tipico della sua età. Il biondino tutto pepe monta con impeto sulle mie ginocchia e mi travolge in un abbraccio prorompente. Mi scruta con gli occhioni grigi. Le guance paffutelle ed il naso a ballotta, piuttosto ricorrente nella nostra famiglia, gli conferiscono un aspetto birbante.
«Giochiamo zio?» – mi chiede fiducioso.
La situazione contingente mi costringe a rifiutare l’allettante proposta e, dopo lo scambio frettoloso di poche coccole, la mamma lo prende per mano e lo invita a seguirla spiegando che non è il momento adatto. Un’ultima strapazzata, un bacino sulla fronte e, a malincuore, il piccolo esce dalla mia stanza, seguendo mesto la mamma.
Passano inesorabili i giorni durante i quali le uscite sono sempre più rare, il caldo è sempre più soffocante e le crisi di paura-da-esame diventano sempre più frequenti. Anche con Feo ci siamo visti solo sporadicamente, entrambi invischiati in una tela invisibile che un immaginario gigantesco ragno ha intessuto tra la scrivania, la sedia e la libreria, utilizzando, come supporto, i libri di testo. Invischiati tra l’Odissea e l’Ermetismo di Ungaretti, i sistemi binari e le equazioni algebriche, un pourquoi ed un parseque, ci concediamo gli ultimi sussulti tali e quali a mosche che attendono inermi l’ora funesta. Durante i saltuari incontri, i nostri colloqui svariano dal “non ne posso più” al “ma quando finirà” passando per un apparentemente, ma ingannevolmente, definitivo “io non mi presento” dettato da un motto quasi isterico.