sei di vada se...

domenica 22 gennaio 2012

secondo 2 di 2

secondo – 2/2
Finito di mangiare scendo di corsa le scale, inforco la bici, una Viner superleggera celestino pallido da vero ciclista, e, come una saetta, arrivo a casa di Feo che si gode il sole sulla poltrona del terrazzo vicino al nonno, un ometto simpatico che spesso ci allieta con sardoniche battute. Feo scende in giardino. Io rimango in bicicletta, seduto sulla canna, il piede sinistro sul pedale, il destro per terra e le braccia conserte, appoggiate sul manubrio d’alluminio foderato di nastro telato in tinta col colore della bici. Feo posa gli avambracci sulla traversa del cancello di ferro battuto nero che ci separa. Appoggia il mento sui pugni chiusi disposti a piedistallo:
«Come stai?» – mi chiede.
«In forma smagliante e tu?»
«Mai stato meglio. Ma… Ha telefonato Franco.» – sorride furbescamente – «La serata ha avuto il suo effetto. O forse la birra ha avuto il suo effetto. Non ha mai dormito. Ha vomitato, ed è ancora a letto col mal di testa. Ha detto che oggi non esce, non studia e non fa niente, cercando di recuperare le forze».
… … …
Ci scambiamo uno sguardo complice e ci abbandoniamo ad una fragorosa risata: sul terrazzo si scuote perfino il nonno che si volta verso di noi con aria interrogativa.
«Non è niente, nonno, continua pure la tua siesta!»
«Perché ridi? Sta male davvero!»
«…e tu perché ridi?»
«La bionda spumeggiante ha fatto un’altra vittima.»
«La sera… leoni e la mattina… coglioni, recita un vecchio adagio.»
«Era il più entusiasta, quando ha visto lo Zingaro avvicinarsi al nostro tavolo con le bottiglie, ed è stato anche il primo che ne ha visto il fondo. “questa bottiglia è bucata” – diceva – “portane un’altra”».
«Meno male che lo Zingaro ha badato a tenerlo a freno, limitando adeguatamente la fornitura di birra.»
«Prima di rientrare, la notte scorsa, sulla panchina, aveva dato i primi segni di cedimento. Ha appoggiato la testa sulla mia spalla e, mezzo addormentato, mi avrebbe sbavato sulla camicia come una lumaca in agosto, se non fossi stato lesto a tirarlo su!»
«Io l’ho appena assaggiata».
«Io pure».
«Non ho voglia di studiare, con questa bella giornata!»
«Nemmeno io ce l’avrei, ma purtroppo…»
«Due tiri al campino?»
«OK! Solo due tiri, poi a studiare!»
Mi lancia un pallone preso da dentro il garage, tira fuori la sua bici rossa, salta sulla sella, esce dal cancello e via, più veloci della luce. Al campino c’è già un bel po’ di gente, il nostro pallone non serve, ce n’è già un che ballonzola nei pressi di una delle porte.
Il campino, come lo chiamiamo noi, è il ritrovo omnistagionale dei ragazzi del paese appassionati di calcio e non. Se si eccettuano gli impegni d’ogni singolo per i rispettivi allenamenti con le selezioni giovanili della squadra locale, gli amanti della sfera di cuoio si ritrovano sempre lì. A qualunque ora del pomeriggio, il campino è il punto focale dell’attività ludico-sportiva paesana. È un prato, costituito da ciuffi d’erba variamente consistenti, intervallati a spiazzi di terra nuda responsabili dei ricami a carta geografica che decorano le nostre ginocchia ed i nostri gomiti. Pali, traverse di legno, tutt’altro che dritti, ed avanzi di rete da pesca trovati sulla spiaggia, costituiscono due strutture dall’equilibrio precario che vagamente assomigliano a porte di calcio. Inesistenti, ovviamente, le linee di demarcazione del campo: la discriminazione di quando è fallo laterale, calcio d’angolo o calcio di rinvio genera discussioni interminabili basate più sulla convenienza del momento che non sull’obiettiva analisi della situazione. È il nostro piccolo San Siro, lo Stadio Comunale dei Poveri, l’Artemio Franchi del mare che sfoggia quotidianamente accaniti derby paesani coloriti da sporadiche risse pacificamente acquietate con sollecitudine dai più grandi del gruppo. In mancanza di tribune, ogni tanto qualche gruppetto di ragazzine, in vena di mettersi in mostra, si schiera lungo le immaginarie linee di delimitazione del campo. In quelle circostanze le energie profuse dal singolo aumentano all’ennesima potenza per emergere sul gruppo e farsi notare dalle interessate ed interessanti spettatrici. I festeggiamenti, per un gol siglato alla presenza del gentil sesso, assumono proporzioni paragonabili alla vittoria nella finale della coppa Rimet di calcio. Fino a poco tempo fa era anch’io un assiduo frequentatore del campino, ma, col crescere, le presenze si sono gradualmente diradate, come per tutti i miei coetanei, fino a diventare quasi sporadiche. Un po’ mi dispiace.
Oggi la compagine è abbastanza nutrita e su tutti spiccano la divisa della Juve di Ghigo, con l’undici di Bettega, e gl’immancabili Beppino, con la maglia rosso-nera di Rivera, e Marco con quella verde-oro di Pelè, entrambe col numero dieci sulle spalle. Le bici sono comodamente coricate sull’erbetta dietro ad una delle porte e, simili a villeggianti avide d’abbronzatura, sembrano bearsi al caldo sole pomeridiano di giugno. Vicino ad un palo della stessa porta, magliette e leggeri giubbotti sono stati accumulati in una specie di guardaroba campestre. Ci aggreghiamo all’allegra compagnia che ci accoglie con entusiasmo. Via la maglietta. Un cross da destra, un colpo di testa, un cross da sinistra, una mezza rovesciata, chi fa gol va in porta, sfida ai rigori, gooool. Che caldo!
In men che non si dica siamo sudati come cavalli nelle sere d’estate all’ippodromo dopo la Coppa del Mare: sembra che siamo stati inzuppati nella vasca dei pesci, in piazza. L’arsura ci attanaglia la gola, la lingua sembra fatta di carta vetrata a grana grossa e gratta la volta palatina. Non ci resta che una rapida risciacquata ed una sontuosa bevuta d’acqua fresca alla fontanella del Comune, prima di fare ritorno a casa, dove ci aspettano i libri di scuola.
Ci sbracciamo in un saluto frettoloso e, al contrario della maggior parte dei ragazzi che rimane a giocare, Feo ed io inforchiamo i cavalli d’acciaio e ci avviamo verso le rispettive abitazioni.
Sistemo la bici in garage, dove il babbo, con un ampio grembiule grigio e lo scalpello in mano, è intento nei suoi lavoretti di tornitura del legno. Un bel lampadario, ricavato da un ciocco d’ulivo, è appeso in mezzo al soffitto del garage, una colonnina venata da striature scurissime si erge in un angolo e la miniatura di un seggio regale, appena lucidata, fa bella mostra sopra ad un ripiano nelle vicinanze. Un saluto e salgo le scale a tre scalini per volta.
«Sono rientrato!» – ad alta voce.
Dal terrazzo una specie d’eco rimanda qualcosa che assomiglia ad un saluto.
Camera mia, mi siedo alla scrivania di noce e non ho che l’imbarazzo della scelta tra i testi scolastici ed i quaderni allineati sulla libreria di fronte a me.
Vediamo… vediamo… Storia.
Tiro giù il volume e lo apro, ma, alle mie spalle, avverto dei passi felpati. Visto che a quest’ora del pomeriggio i ladri e gli scassinatori sono in pausa, non può essere che la mia sorellona. Lei è sposata da qualche anno e già un nipotino gironzola ogni tanto per la casa. La sua abitazione è vicina alla nostra, i giardini sono confinanti, ed è consuetudine vederci piuttosto spesso. Mi appoggia teneramente la mano grassottella sulla testa scarruffandomi un po’ i capelli. Poi la stessa mano scivola sulla mia spalla, mentre lei si accosta alla scrivania.
«Siamo vicini al grande momento. Sei preparato?»
«Credo di sì, ma ogni giorno che passa ne sono sempre meno sicuro. Ho l’impressione che più studio e più le cose mi passano di mente».
«È normale. Dai! Un ultimo sforzo e vedrai che quando l’esame sarà finito ti accorgerai che non è stato poi così difficile.»
«Me lo auguro.» Rivolgo la sedia verso di lei. «Tu come hai passato il periodo degli esami?»
Sorride.
«Nella pausa tra l’ultimo giorno di scuola e la prova orale, l’ultima dell’esame, quasi non dormivo più e mangiavo come un uccellino. La mamma era preoccupata, ma io avevo un irremovibile crampo alla bocca dello stomaco provocato dall’ansia che si era generata dentro di me. Leggevo, studiavo, ripassavo, impiegavo giornate e serate intere sui libri e, come te, sembrava che, col passare del tempo, disimparassi ciò che avevo appreso durante l’anno. E l’ansia cresceva col calare dei giorni che mi separavano dall’esame. Poi arrivò il dì a lungo indesiderato e le mie ansie si dissolsero. Il tema d’Italiano, il compito di Matematica, la prova di Francese insomma, le verifiche scritte e quelle pratiche non mi preoccupavano, quello che temevo, ovviamente, era la schiera di professori da affrontare tutti in una volta. Uscendo dalla scuola, dopo la prova orale, mi resi conto di quanto sciocco fosse stato preoccuparmi così tanto per una cosa di ordinaria amministrazione. Si è semplicemente trattato di un’interrogazione un po’ più lunga del consueto. Per questo il mio consiglio è di non preoccuparti, anche se so che non è facile.»
Nel frattempo fa il suo ingresso il marmocchio, che probabilmente si era intrattenuto con la nonna sul terrazzo, e mi affronta festante con l’entusiasmo tipico della sua età. Il biondino tutto pepe monta con impeto sulle mie ginocchia e mi travolge in un abbraccio prorompente. Mi scruta con gli occhioni grigi. Le guance paffutelle ed il naso a ballotta, piuttosto ricorrente nella nostra famiglia, gli conferiscono un aspetto birbante.
«Giochiamo zio?» – mi chiede fiducioso.
La situazione contingente mi costringe a rifiutare l’allettante proposta e, dopo lo scambio frettoloso di poche coccole, la mamma lo prende per mano e lo invita a seguirla spiegando che non è il momento adatto. Un’ultima strapazzata, un bacino sulla fronte e, a malincuore, il piccolo esce dalla mia stanza, seguendo mesto la mamma.
Passano inesorabili i giorni durante i quali le uscite sono sempre più rare, il caldo è sempre più soffocante e le crisi di paura-da-esame diventano sempre più frequenti. Anche con Feo ci siamo visti solo sporadicamente, entrambi invischiati in una tela invisibile che un immaginario gigantesco ragno ha intessuto tra la scrivania, la sedia e la libreria, utilizzando, come supporto, i libri di testo. Invischiati tra l’Odissea e l’Ermetismo di Ungaretti, i sistemi binari e le equazioni algebriche, un pourquoi ed un parseque, ci concediamo gli ultimi sussulti tali e quali a mosche che attendono inermi l’ora funesta. Durante i saltuari incontri, i nostri colloqui svariano dal “non ne posso più” al “ma quando finirà” passando per un apparentemente, ma ingannevolmente, definitivo “io non mi presento” dettato da un motto quasi isterico.

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