sei di vada se...

mercoledì 14 dicembre 2011

secondo 1 di 2

Secondo – 1/2
La voce cordiale di mia madre mi avverte che è quasi mezzogiorno. Dal tepore che avvolge la mia cameretta mi rendo conto che è una giornata stupenda. Socchiudo gli occhi. Con l’avvolgibile della finestra quasi totalmente abbassato, l’ambiente è in penombra ed intravedo le sagome familiari dell’arredamento e relative suppellettili da me disposte in ordine sparso nel corso degli anni. Mi scopro la parte alta del corpo ed indugio ancora un po’. Sulla mensola superiore della libreria, che sovrasta lo scrittoio, sono schierati modellini di moto di grossa cilindrata ed auto da rally dai colori sgargianti che attendono un inverosimile: pronti? via! Sulla sinistra, un vasetto ricoperto di creta colorata, frutto di un lavoro realizzato in quinta elementare, riproduce in altorilievo la faccia divertente di un pagliaccio dai capelli gialli e rossi attorniato da coriandoli, stelle filanti, clave ed anelli colorati caratteristici del mondo circense. Libri di varia natura, ma soprattutto testi scolastici, sono allineati sulla seconda mensola della libreria e, più sotto, quaderni ammonticchiati uno sopra l’altro occupano il ripiano inferiore. La scrivania, ricoperta da un vetro anti-graffio, è occupata da penne, porta penne, un piccolo calendario perpetuo, un minuscolo mappamondo ed un artistico tagliacarte che raffigura una spada di Toledo, ricordo del viaggio di nozze in Spagna di mia sorella. Oltre all’armadio, che si trova ai due lati della scrivania, due comode poltrone di pelle marrone, di forma classica e molto pratica completano l’arredamento ai lati di un piccolo tavolo sul ripiano del quale è intarsiata una scacchiera. I jeans, la maglietta ed il golfino indossati la sera prima giacciono abbandonati sullo schienale della poltrona più vicina alla porta, nell’attesa che si compia il loro destino nel cesto dei panni sporchi. Mi siedo sul letto stropicciandomi gli occhi, butto giù le gambe, i piedi cercano a tastoni le pantofole e, dopo un ulteriore minimo indugio, mi alzo a fatica. Le scarpe ed i calzini tirano tuttora il fiato, sparpagliati sul lucido pavimento di graniglia. Apro la finestra, rivolta a sud, sollevo la tapparella ed il sole, splendente nel cielo terso, ferisce le mie pupille assonnate inondando la stanza di calore e di luce. Effettivamente la giornata si presenta nel modo più radioso. Una rondine sfreccia fulminea nel cielo a pochi metri da me, mentre altre volteggiano in lontananza riempiendo l’aria circostante di striduli garriti.
Mi stiracchio, mentre uno sbadiglio tende spasmodicamente le mie guance e la bocca si spalanca raggiungendo dimensioni da far invidia ad un ippopotamo che sonnecchia nelle acque calme e limacciose del Nilo. Dalla finestra, sulla sinistra, mi colpisce l’albero di nespole giapponesi che esibisce, orgoglioso e spavaldo, frutti in avanzato stato di maturazione dalla buccia lucidissima e di una vivace colorazione giallo-arancione, in netto contrasto con il verde scuro del fogliame circostante. Dalla parte opposta, invece, scorgo frutti ancora verdognoli tra le folte fronde del maestoso albicocco: dovremo aspettare almeno un’altra ventina di giorni prima di poterli assaggiare. In mezzo, in prossimità del pozzo, un piccolo albero di ciliegie è stato ormai quasi del tutto razziato della propria mercanzia e poche sferette rosse spiccano inframmezzate al rado fogliame. Nell’orto di fronte Sergino, il vicino di casa, è intento a zappare di buona lena la terra per accudire a non so cosa. Pantaloni corti color kaki e canottiera blu a coste costituiscono l’adeguato abbigliamento integrato da un cappello di paglia a falda larga che ripara dal sole cocente la sua testa e la parte superiore delle spalle, già abbondantemente abbronzate. Le scarpe pesanti ed i calzini corti, di lana grossa, gli consentono di camminare con incedere deciso e privo di difficoltà in mezzo alle scabre zolle. Ogni tanto si raddrizza, si terge il sudore dalla fronte e, con uno sputo deciso, lubrifica l’attrito tra le ruvide mani, ricoperte da calli, ed il legnoso manico del marrone. Tra filari di pomodori verdi e rossi, rigogliose piante di piselli, fagiolini, peperoni, zucchini ed altri ortaggi, procede speditamente nel preparare il solco ad accogliere i semi di chissà quale verdura di stagione. Sullo sfondo, sul campanile della chiesa, le bronzee campane hanno iniziato il consueto movimento oscillatorio che, in breve, le porterà a percuotere il rispettivo batacchio: pochi secondi ed un festoso scampanio riecheggia puntuale nell’aria per avvisare i paesani che è giunto mezzogiorno.
Trascinando le pantofole, m’infilo un paio di calzoncini corti e mi affaccio in cucina dove un buon odore di ragù di carne annuncia che fervono i preparativi per l’imminente desinare.
«Buongiorno!»
«Buongiorno! Dormito bene? Ti ho sentito rientrare, questa notte: sarà stata l’una e mezza. Com’è andata la cena, tutto bene?»
“Me l’immaginavo” – penso tra me e me – “Eppure ho fatto tutto così silenziosamente! Quando sono rientrato non dormivano, figuriamoci. È normale”.
«Si! Lo Zingaro era in forma abbagliante ed ha fatto la sua buona figura. Le portate erano appetitose ed abbondanti. I ragazzi si sono alzati da tavola soddisfatti, ed i professori pure». Pausa. Fiuto con gusto gli aromi della cucina come un segugio in cerca della preda nel giorno d’apertura della caccia.
Una transitoria apparizione sul terrazzo, che domina la parte posteriore del giardino di casa, dove pochi alberi da frutto ed aiuole di fiori si alternano in un’armonia di colori e di profumi, e continuo nell’opera di stiracchiamento delle membra ancora intorpidite. Rientro. Ritorno verso il corridoio, mi avvicino al bagno. Apro la porta, affronto il water con atteggiamento indolente dopodiché appoggio le mani sul bordo del lavandino, fisso il rubinetto, poi il buco di scarico, di nuovo il rubinetto, guardo di fronte a me… Di soprassalto mi accorgo che un losco figuro mi sta fissando dritto negli occhi. È grottesco! Gli occhi si manifestano gonfi e ridotti a minime fessure da intricate ciglia attraverso cui s’intravedono appena le iridi castane; le folte sopracciglia nere, aggrottate, rendono ancor più truce il bieco sguardo; labbra pendule, semichiuse ed arcuate verso il basso a simulare un ghigno degno di un mastino napoletano a cui sia stata calpestata la coda; il naso a patata è leggermente arrossato; i capelli, come serpenti neri, ricordano vagamente la mitologica Medusa; la pelle del viso è raggrinzita da leggeri solchi rossastri. Praticamente un mostro. Ma no! Sono io! È lo specchio che mi ha tradito! Sono gli effetti del cuscino che mi ha maltrattato per tutta la notte, il bastardo. Mi ha malmenato, il caino. Mi ha sfregiato la faccia, l’infame. Mi ha ridotto uno straccio, il malvagio. Che fine ha fatto quel ragazzino dalla faccia pulita, pressoché imberbe, che ieri ha passato la sua prima serata vera da quasi adulto? Quello che ha preso l’aperitivo da Doriano attraendo come una calamita la deliziosa brunetta del juke-box?
Già è vero! La mia Biancaneve. Ecco che mi ritorna in mente (toh! Il titolo di un’altra canzone di Battisti!). Ammetto che, forse per la serata un po’ particolare, per la situazione che si è creata nonché, sicuramente, per la dolce ma fugace complicità della ragazzina, il ricordo genera nella mia mente un inconsapevole imbarazzo accompagnato da una leggera emozione. Tutto si è evoluto così rapidamente! Iniziato e concluso dando a stento il tempo di rendersene conto. Nell’arco di mezz’ora, il colpo di fulmine si è dileguato come un temporale notturno di mezza estate. Uno scroscio di pioggia a catinelle allaga le strade che assumono le sembianze d’impetuosi fiumi in piena, qualche lampo squarcia il cielo illuminando la notte come se fosse giorno, tuoni fortissimi da spaccarti in due e, poco dopo, più niente, con la luna e le stelle che tornano pallide a fare capolino tra le nuvole che si diradando rapidamente.
M’infilo veloce sotto il potente getto della doccia che, con il rubinetto aperto al massimo, ritempra energicamente le mie membra rattrappite. Uno shampoo abbondante, un massaggio veloce di bagnoschiuma e sono di nuovo in perfetta forma. Indosso l’accappatoio, metto i piedi sul tappetino di spugna e strofino vigorosamente i capelli che si asciugano velocemente: non ho mai usato il phon, la compattezza della mia capigliatura le consente di asciugare con pochi veementi colpi d’asciugamano. Emergo dalle pieghe di spugna di accappatoio ed asciugamano ed i capelli, neri e crespi, sono ancora più indemoniati di prima. Mi accorgo che sto fischiettando un’arietta senza senso: è evidente che il ricordo della serata appena trascorsa e la corroborante doccia mi hanno reso di buon umore, facendomi temporaneamente dimenticare che tra qualche giorno mi aspetta la prova d’Italiano dell’esame di Licenza Media.
Un salto in camera, apro un cassetto, mi tolgo l’accappatoio per indossare gli slip, una maglietta ed un paio di calzoncini corti e ritorno nel tinello dove la tavola apparecchiata ed un buon odore ancora più appetitoso mi fa arguire che il pranzo è quasi pronto. Mi reco di nuovo sul terrazzo, giusto il tempo per stendere ad asciugare l’accappatoio umido, e di nuovo dentro. Vista l’ora tarda, per oggi dovrò fare colazione con gli spaghetti. Mi rendo conto che è sabato: il babbo è a casa e sta salendo le scale per approssimarsi a sua volta al desco. Ci scambiamo una pacca sulla spalla e lui mi paga con un sorrisetto complice, come se avesse sentore di qualche mia nuova esperienza della sera precedente. Lo lascio credere. Mangio con gusto, mentre i miei pongono qualche domanda, per altro molto discreta, sull’andamento della serata recentemente trascorsa.
Faccio un po’ di cronaca della cena, soffermandomi sui particolari più divertenti, sorridiamo insieme noncuranti della televisione che, accesa a basso volume, trasmette le solite notizie di rimpasto del governo, di code sulle autostrade per le orde di turisti che calano dal nord per il fine settimana e dell’imminente sciopero dei benzinai per il rincaro del prezzo dei carburanti.

giovedì 13 ottobre 2011

primo 3 di 3

l’ultima parte del primo capitolo
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Ci appropinquiamo alla zona ristorante, la cui copertura è assicurata da un’ampia tenda rosa-salmone sorretta da una robusta intelaiatura d’alluminio anodizzato. La mantovana esterna riporta, a caratteri cubitali blu, il nome della pensione adiacente. Tovaglie celesti coprono i tavoli apparecchiati con tovaglioli dello stesso colore, candidi piatti con la stampa del nome della pensione, splendenti calici e luccicanti posate d’acciaio. Immancabili, al centro d’ogni tavolo, trovano posto il cestino di vimini con le buste dei grissini e la saliera in vetro e acciaio, con tanto di stuzzicadenti Samurai. Oltre la porta a vetri, che separa il giardino dai locali interni, posate, piatti e bicchieri attendono, sopra ad un mobiletto, il loro turno nel rimpiazzare le stoviglie sporche nel prosieguo della cena. Nella penombra s’intravede la Reception, come lo chiama lo Zingaro, con tanto di bancone in legno laccato bianco in stile non identificato, citofono, pannello delle chiavi delle camere, non più di una dozzina, ed un classico campanello, in lucidissimo ottone, per richiamare l’attenzione del portiere nel caso fosse assente. Sul pannello delle chiavi, spiccano portachiavi al limite dell’inverosimile: campane di un abbagliante rosso rubino di dimensioni assolutamente sproporzionate, sul fondo delle quali è riportato il numero della camera rosso su sfondo blu. La chiave in lega d’acciaio è appena visibile, al cospetto di cotanto accessorio e, se il peso rispecchia le dimensioni, sfido chiunque a dimenticarsi di consegnare il tutto al portiere, prima di uscire dall’albergo. Una passatoia rosso scuro bordata di beige, tesa alle estremità da sbarre d’ottone lucidissimo, completa l’arredamento della Reception ed accompagna i clienti fino alle scale che portano ai piani superiori e, quindi, alle camere.
Nel clamore generale arriva il ritardatario Alberto, biondissimo, alto, discretamente agghindato: è apparentemente trafelato, ma a noi non la fa, sappiamo tutti che si tratta di una posa per giustificare il ritardo.
Ora siamo veramente al completo. Prima di accomodarmi ho il tempo di un’altra sbirciata verso il tavolo della confinante pizzeria. Allungo invano il collo oltre la siepe divisoria. Intravedo una testolina bruna, ma non è più tempo. Feo si aggrappa alla mia camicia tirandomi giù e cado seduto sull’impagliatura della sedia di legno, mentre lui prende posto alla mia destra e Franco a sinistra. Sono di fronte a Fiorenza che parla, come al solito, come un vecchio disco incantato sul solito microsolco. Sonia, alla sua sinistra, ha già dato segni di scoramento. E siamo solo all’inizio.
I professori si accomodano compostamente ad un capo del tavolo con quello di Applicazioni Tecniche che fa il cascamorto con occhi dolci di Matematica: la precede nella marcia di avvicinamento al tavolo, la invita a sedere con un gesto della mano sinistra, le sposta la sedia e poi la fa accomodare prendendo a sua volta posto inesorabilmente di fronte a lei. Il prof di Disegno, il più anziano, lo guarda di straforo, al di sotto delle folte sopracciglia grigie, poi si accorge che anche noi abbiamo notato il tentativo d’approccio, si volta verso di noi, un accenno di sorriso a bocca storta, ci fa l’occhiolino e poi dondola leggermente la testa, con fare compassionevole, all’indirizzo dell’improbabile gigolo. Si siede nei paraggi, ma in cuor suo vorrebbe venire vicino a noi. È il più forte di tutti, come al solito. Nelle immediate vicinanze dei professori, ovviamente, siedono le immancabili cocche, quelle del primo banco, quelle che alzano sempre la mano, quelle che finiscono il compito sempre per prime e te lo fanno pesare con un sospiro, con il quale accompagnano il clic del cappuccio che serra l’inseparabile penna stilografica. La penna stilografica. E chi la usa più, la penna stilografica. Non è pratica, macchia, è facile a rompersi, devi avere a portate di mano la cartuccia di ricambio perché l’inchiostro finisce sempre nel momento meno adatto, consuma nero di china come una Formula uno in prova al circuito del Mugello. Ma perché, negli anni settanta, esiste ancora qualcuno che usa la stilografica? Per far colpo sui professori, è ovvio: bella calligrafia, maiuscole arricciolate, ombreggiature e miniature da frate Certosino. Io sono un accanito estimatore della fedelissima nonché affidabile Bic blu, con tanto di cappuccio morsicato, fedele compagna delle vicissitudini scolastiche di molti come me. Nel bene e nel male. Un colpo d’incisivi ben assestato al piccolo cappuccio posteriore ed eccola trasformata nella più micidiale arma delle aule scolastiche del dopoguerra: una cerbottana a pallini di carta rigorosamente ciucciati e masticati. Bersagli preferiti: il crocifisso, il calendario di Frate Indovino, il lampadario, la nuca di quei ruffiani del primo banco e la lavagna, ma solo nel caso in cui ci sia graficamente rappresentato qualcosa che assomigli, anche vagamente, ad un bersaglio.
Siamo, finalmente, tutti seduti e piuttosto ordinati, direi. Al contrario del solito, con i ragazzi da una parte e le ragazze dall’altra in gruppi ben distinti, questa sera, al nostro tavolo, non è stato rispettato alcun ordine del genere. Siamo una classe mista e come tale ci siamo disposti a tavola, in ordine più o meno sparso. Alcune delle ragazze sfoggiano occhi e guance moderatamente truccati, probabile concessione strappata ai genitori in cambio di chissà quale promessa, anche se nessuna di loro ha osato ravvivare le labbra d’impudico rossetto. Abbigliamento casual. Prevalgono jeans e magliette a maniche corte ma non mancano camicie, camicette e top perfettamente in sintonia con la tiepida serata e con la stagione in corso. Magliette e top aderenti mettono in risalto forme, in molti casi, acerbe ma che, non per questo, passano inosservate ai nostri sguardi a dir poco allupati. Ovviamente, i nostri occhi indugiano, soprattutto, su coloro che esibiscono, spavalde e provocatrici, articoli voluminosamente più esuberanti. A tavola, poi, le dolci prominenze superano di poco il limite del tavolo, risaltando ancora di più oltre il candido piatto.
Sonia, puppedoro, è quasi di fronte a me, leggermente spostata sulla sinistra ed indossa una maglietta di cotone giallo paglierino attillata all’inverosimile che lascia ben poco all’immaginazione; si riconosce perfino la trina del reggiseno e lo scollo a “V” scopre, anche se non di molto, un incavo nel quale sono già caduti, e tra l’altro si sono sperduti, gli occhi di quasi tutti i ragazzi del tavolo. Si pavoneggia candidamente compiacendosi di procurare appagamento, anche se soltanto visivo, alla bramosia degli imbambolati e stolidi compagni. Giurerei che pochi di noi hanno notato il purpureo papavero che spunta dalla costola della maglietta di cui orna simpaticamente la parte inferiore. Ma Sonia sa che fa parte del gioco e ne è consapevolmente soddisfatta.
I jeans di Maura sono un altro miracolo della natura: scoloriti, quasi bianchi, soprattutto sulle cosce e sul dietro, dove risaltano sfavillanti brillantini ad ornare le tasche posteriori, che a loro volta inguainano ciò che lei ha di più interessante. Un mandolino di glutei, degni del concerto di Ferragosto per archi e fiati in goppa a Posillipo. È in ginocchio sulla sedia vicina al capo-tavola alla mia sinistra, i piedi incrociati, china in avanti con i gomiti appoggiati sul tavolo e le mani che sostengono il mento rotondeggiante; si dimena come una bambina capricciosa senza rendersi conto di stuzzicare pericolosamente animi già abbastanza elettrizzati ed impulsi repressi a dir poco irrequieti.
Considerazioni a parte per il bell’Adone. Fulvio è il più alto di noi, capelli scuri, un ciuffo sulla fronte spesso rimosso con ampi movimenti del capo, occhi scuri e gran fisico da cestista. Le ragazze fanno sempre capannello intorno a lui. Questa sera è abbigliato con jeans bianchissimi, cintura di tela blu, in armonia con le scarpe da ginnastica, camicia a righe verticali non troppo sottili bianche e rosse ampiamente aperta sul petto vagamente villoso con tanto di catenina e crocefisso d’oro. Un golfino di cotone bianco sulle spalle contrasta con la discreta abbronzatura. Contrariamente al solito, ed inspiegabilmente, il gentil sesso, stasera, non sembra particolarmente ammaliato dall’avvenenza del bellimbusto che, almeno inizialmente, se ne rimane un po’ in disparte con nostro dispiacere. Due battute ed il mancato colpo ad effetto è solo un brutto ricordo: alla fine anche lui si butta nel mucchio per la gioia della spensierata compagina.
 L’unico neo nella fantasia di colori e d’indumenti è l’abbigliamento di Francesco, con i soliti pantaloni di fustagno corti quanto basta a scoprire il candido calzino ed i mocassini di vacchetta; la camicia a quadri modello Far-West, rigorosamente a maniche lunghe, è immancabilmente abbottonata fino al collo. Che non abbia altro nel guardaroba? Per tutto l’inverno ha indossato più o meno il solito abbigliamento, maglione più maglione meno, a dir poco stantio. Sembra già una persona anziana. Avesse i baffi e la pipa di radica tra i denti giallognoli, sarebbe già pronto ad impersonare la parte di suo nonno.
Con passo deciso lo Zingaro si avvicina con sei bottiglie d’acqua frizzante tenute per il collo dalle dita delle mani poderose. Appoggia le bottiglie sul tavolo in ordine apparentemente casuale. In realtà, ad un osservatore più attento non può sfuggire che ogni bottiglia è perfettamente al centro di quattro persone e prontamente Raimondo ritorna con altre due bottiglie che completano la fornitura d’acqua. Nonostante le nostre reiterate proteste, solo la zona riservata agli adulti è stata rifornita con due bottiglie di vino bianco frizzantino delle campagne locali. Ma lo Zingaro sa come accontentarci e ci allunga, di sottobanco, un paio di Peroni da tre quarti che in parte ci appagano.
Tra un vociare e l’altro, sbucano i piatti degli antipasti: un paio di fette di prosciutto San Daniele magro, altrettante di salame toscano, un crostino di fegatini di pollo e capperi ed una tartina con burro e salmone incorniciano un pugno di verdurine sott’olio tra cui spiccano un cetriolino, pezzetti di carciofo, di peperone, olivette ed altro. Vassoi di piccoli rosei calamari dalle teste tentacolate e gamberetti bianco-arancioni, anch’essi sott’olio, vengono dispensati lungo tutta la tavolata, alternati a terrine di cozze, vongole ed altri frutti di mare, ornati da una verde spolverata di prezzemolo tritato. Grandi spicchi di limone, dall’aspetto succoso, coronano le portate. Con gesti composti le mani svolgono i tovaglioli che vengono educatamente appoggiati sulle ginocchia. Qualcuno sceglie l’alternativa d’incastrare l’angolo del tovagliolo al colletto della camicia o della maglietta. Poi l’imprevedibile! L’abbuffata è generale. Brutta, la fame! Anche le signorine non disdegnano e, in men che non si dica, buste di grissini ormai vuote e briciole di pane rimangono sparpagliate sul tavolo a testimonianza dell’avvenuta libagione. Tovaglioli accartocciati giacciono vicino ai piatti. Placato l’impulso iniziale, ci gustiamo con più moderazione i primi piatti a base di cannelloni ripieni, tagliatelle ai frutti di mare e riso alla pescatora, il tutto servito in tavola da un Raimondo in perfetta forma che non risparmia simpatiche ed ironiche battute sui conviviali. Gli indecorosi ed avidi approcci introduttivi si placano definitivamente all’arrivo di un roast-beef al sangue, di sontuosi gamberoni in guazzetto e di una croccante frittura mista, con tanto di crognoli e trigliette, che vengono degnati di poche distratte attenzioni. Il tutto è completato dal contorno delle immancabili patatine fritte e di una multicolore insalata mista, su cui spiccano pezzetti di vermigli ravanelli, sottili filamenti di carote, cuori di carciofi nostrali tagliati a fettine e dorati chicchi di mais. Non desta scalpore il fatto che Nanni sia l’unico a dedicarsi ancora anima e corpo alle portate del banchetto. La classica merenda di Nanni, all’intervallo delle dieci, era costituita da due massicce fette di pane casalingo imbottite, a giorni alterni, da un’appetitosa frittata o da soppressata di maiale. Negli anni ha probabilmente sviluppato uno stomaco ed un fegato da record ed anche stasera non si smentisce. Mentre il cibo ha perduto per noi ogni attrattiva ed abbiamo dirottato i nostri interessi verso un’animata conversazione, con inevitabili lanci di palline di mollica di pane e buste vuote di grissini accartocciate, lui continua di buona lena a prendere a morsi i gustosi gamberoni. Nel frattempo la fornitura di Peroni è raddoppiata e qualcuno se ne sta approfittando. L’immancabile macedonia di frutta fresca, sormontata da un paio di palline di gelato di crema ed accompagnata da qualche bottiglia di spumante obbligatoriamente dolce, viene accolta con un entusiasmo che lo Zingaro dimostra di apprezzare molto. Nonostante il riacutizzarsi delle proteste per la mancata fornitura di vino, Raimondo considera caffè ed ammazza-caffè un’esclusiva del corpo docente.
La serata prosegue con gl’insegnanti che si avvicinano alla zona del tavolo di nostra competenza con l’intenzione di avviare una conversazione amichevole: felicissimo è il prof di Disegno che si siede in mezzo a noi, quasi di fronte a me, dispensando battute, aforismi ed aneddoti che lo rendono ancora più simpatico. Ancora una mezz’oretta, tra un «ce l’avete il (la) fidanzato (a)?» ed un «quale scuola avete scelto per proseguire gli studi», poi, inevitabilmente, arrivano i primi segni d’insofferenza da parte di alcuni di noi. Le bimbe più intraprendenti e già oggetto delle attenzioni di uno spasimante, se pur assolutamente al di fuori di tutti i crismi dell’ufficialità, sbirciano smaniose verso la strada nella speranza di poter abbandonare alla svelta la compagnia. Alla spicciolata, ci alziamo dal tavolo ed usciamo sulla Via del Mare, non prima di aver pagato la propria parte del conto ed aver salutato calorosamente il nostro amico Zingaro, come sempre all’altezza della situazione. È quasi mezzanotte, i genitori delle ragazze sono già venuti a prenderle, ma noi spendiamo gli spiccioli di questa serata sulla buia spiaggia dove l’unico barlume è generato dalle luci dell’Ippocampo, il bar simbolo della spiaggia libera. Sbuca un pallone e, tra un calcio ed un colpo di testa, troviamo finalmente la strada che ci porta verso casa. Siamo di nuovo sulla via del mare, ormai deserta, questa volta diretti verso la piazza, siamo rimasti in tre, tre somari e tre briganti come direbbe Domenico Modugno: Feo, Franco ed io. Niente da fare. Non siamo capaci di trovare la strada per andare a letto. È la prima volta che facciamo così tardi e ce la godiamo. Ci sediamo su una scomoda panchina di cemento della piazza e scambiamo le prime impressioni a caldo sulla serata appena trascorsa. In fondo è stata una bella serata e ci siamo comportati egregiamente. I commenti ricadono inesorabilmente sulla maglietta di Sonia, i jeans di Maura, le battute dello Zingaro eccetera… eccetera… eccetera… Franco manifesta leggeri segni di ebbrezza, probabilmente è l’unico dei tre a non aver trovato la giusta misura nel mescere la birra abusivamente fornitaci dallo Zingaro. Appoggia la testa sulla spalla di Feo e tende a addormentarsi. Anche i nostri occhi cominciano a farsi pesanti e decidiamo che è l’ora di affidarsi alle braccia di Morfeo.
Mentre Franco, quasi del tutto sveglio, si avvia verso la parte opposta della piazza, Feo ed io percorriamo ancora pochi passi insieme, illuminati dalla luce lattiginosa dei bassi lampioni. Al primo incrocio, lui prende a sinistra ed io a destra, diretti verso le rispettive abitazioni.
«Ciao, ciao a domattina. No, pomeriggio, domattina guai a chi mi sveglia prima di mezzogiorno!».
Durante il breve tragitto che mi separa dal cancello del giardino di casa, mi torna in mente la fugace apparizione della mia Biancaneve in pizzeria da Doriano. Per tutta la sera non avevo più pensato a lei, in tutt’altre faccende affaccendato. …Però. …Era proprio carina! Entro in giardino, la ghiaia scricchiola sotto le scarpe, apro il portone, chiuso a doppia mandata e lo richiudo alle mie spalle ripristinando la doppia mandata. Salgo le scale e l’immagine di lei non mi abbandona. I miei dormono nella grossa… forse! Silenziosamente, come un gatto sui tetti, oltrepasso la porta di camera mia, cerco a tastoni la luce sul comodino e la accendo. Sulla parete di fronte al letto, prendono corpo i poster della Lancia Fulvia HF rossa e nera di Munari-Mannucci sulle nevi del Rally di Montecarlo e della 124 Abarth, anch’essa rossa e nera, di Verini-Rossetti al Rally di Sanremo. Dopo essermi spogliato mi corico supino sul letto ed incrocio le mani sul cuscino, dietro la nuca fissando il soffitto. Le idee si confondono nella mia testa e sprazzi di aperitivo da Doriano e cena dallo Zingaro si confondono in un cocktail micidiale finché il sonno non prende il sopravvento. Mi risveglio dopo un po’ con la luce del comodino ancora accesa. Faccio appena in tempo a pensare: “Chissà che ore sono?”, a spegnere la luce, che piombo di nuovo in un sonno profondo.

venerdì 2 settembre 2011

primo 2 di 3

La seconda parte del primo capitolo 
vada, da giugno a settembre, giorgio ariani, ordigno
Sbircio verso il tavolo, mentre Flipper continua ad esibirsi. Feo deve aver subodorato qualcosa e lo tiene a distanza di sicurezza. Sono fuori della sua portata. Il bello del gioco di squadra.
Lei parla sommessamente con il padre, poi con la madre. Non capisco che cosa si dicono, ma sembra che parlino in Italiano. Ha già finito la sua pizza. Chissà che gusti aveva scelto. “Secondo me Margherita: semplice, gustosa, essenziale. Tale e quale a lei.” Giocherella con le briciole sulla tovaglia, poi impugna il coltello come se fosse una penna e tormenta i pochi avanzi nel piatto. Alza la testa e guarda verso un punto che si trova dritto davanti a lei. Ma… Colpo di scena. Distoglie lo sguardo e si volta verso di me. Mi ha visto. Che faccio? Sorrido… Sorride. Evviva!!!
Un sorso di rosso Ferrari, un’olivetta con lo stuzzicadenti, una patatina. Mi appoggio alla vetrata con la spalla sinistra. Distoglie lo sguardo, lo faccio anch’io. I nostri occhi s’incontrano di nuovo poco dopo. Si era alzata per me, Feo non c’entra niente. Gongolo.
Ma cosa gongolo a fare? È con i genitori e non può trovare altre scuse per lasciarli. Oltretutto fuori del bar è arrivata quasi tutta la terza “A”, Feo è già uscito e stanno aspettando solo me. Flipper si è dileguato, è venuto giusto il tempo di rompere… le uova nel paniere.
La canzone è finita, il juke-box tace in attesa che un altro avventore sia disposto a scambiare le sue cento lire con un po’ di musica. Mi sa che devo andare. L’ultimo sorso e compio un passo indietro, per raggiungere il tavolo dove appoggio il bicchiere vuoto. Un accenno di saluto a Doriano che, da dietro il bancone, cordialmente ricambia con un sorriso e mi avvio verso l’uscita.
Passo abbastanza vicino al tavolo che m’interessa, uno sguardo, sollevo leggermente la mano per un ciao quasi impercettibile e ella, timidamente, accenna lo stesso gesto e sorride abbassando gli occhi. Che bello. Non mi sono azzardato a volgere lo sguardo verso i genitori e mi auguro che siano stati comprensivi. Una tenera emozione della durata di una canzone di Lucio Battisti. Un unico complice gesto ed un paio di sorrisi. Chissà se ci rivedremo ancora.
Mi butto nel mucchio della terza “A”. Saluti, pacche sulle spalle, baci e abbracci ci siamo proprio tutti: Nanni, Giorgio, Maura, Sonia, “Stecco”, Bruna, Fiorenza e tutti gli altri. La terza “A” al gran completo. Beh, proprio al completo-completo non direi. Manca il solito Alberto. Ritardatario cronico. Se istituissero l’Oscar per il ritardo sicuramente andrebbe in finale con concrete possibilità di vincerlo. La sua particolarità è di arrivare sempre in ritardo, non di molto, qualche minuto, ma sistematicamente. È una legge di vita, una caratteristica cromosomica, l’assioma della sua esistenza. Abbiamo provato a dargli appuntamento mezz’ora prima degli altri. È riuscito ad arrivare in ritardo lo stesso. Che fenomeno! Non vedo i professori, ma chi se ne importa, arriveranno e se non arrivano meglio.
Nel bailamme generale, lancio un occhio verso il pergolato, ma la bimba è di spalle, non mi può vedere. Come no, è girata verso di noi, forse attratta dagli schiamazzi e dal baccano: siamo campioni del mondo in questo. Mi sta guardando. La guancia è appoggiata sulla spalla ed i capelli quasi le coprono l’occhio sinistro. Che dolce. E chi la molla più? La siepe di pitosforo mi copre la vista dei genitori, meno male.
Mio malgrado, la corrente umana mi sopraffà come l’Arno nella piena del ’66 trascinò tragicamente verso il mare le suppellettili degli abitanti di Pisa e Firenze e l’amica siepe finisce col diventare nemica quando cela la fatina al mio sguardo. “È finita. Non la rivedrò più!” – penso tra me seguendo il flusso che mi trasporta verso il ristorante della Pensione Edy, il cui giardino confina con quello della pizzeria. In quei pochi metri di marciapiede è difficile pensare ad altro.
Irrompiamo fragorosamente nel giardino del ristorante, fortunatamente ancora deserto, ed avverto chiaramente sotto la suola di gomma delle scarpe, il simpatico scricchiolio della ghiaia che ricopre il vialino di accesso. Lo Zingaro, abbronzatissimo come al solito, ci viene incontro con la classica bandana variopinta annodata sulla testa rasata limitandosi ad un semplice ma efficace:
«…bimbi…», «…boni…».
Al lobo dell’orecchio sinistro risplende luminoso il piccolo immancabile brillante. L’onor del mento è un pizzetto brizzolato che conferisce alla faccia rotonda di Raimondo l’aspetto del più classico degli zingari. Sembra tolto dalla scenografia di un film. Un paio di pantaloni rossi, una camicia bianca aperta sul petto poco villoso, abbellita da un multicolore pappagallo dipinto sulla destra della pettorina ed un paio di sandali di cuoio costituiscono l’abbigliamento a dir poco casual del nostro anfitrione. I pantaloni, ovviamente, sono arrotolati fin poco sotto il ginocchio.
Mentre lo Zingaro cerca di controllare la situazione, arriva il corpo insegnante, anch’esso al completo. L’Italiano, la Matematica, il Latino, il Francese, ci ritornano minacciosi alla mente; per una sera cercavamo di toglierceli dalla testa, ma i prof sono qui a rammentarci quello che dobbiamo aspettarci di lì a qualche giorno.
La rossa d’Italiano non la sopporto, l’Italiano in genere non lo sopporto e lei non fa niente per rendermelo simpatico. Ho sempre affrontato il compito in classe d’Italiano come un calcio in uno stinco, un’operazione alle tonsille, un’estrazione dentaria; un crampo alla mano destra mi assaliva inevitabilmente davanti al foglio protocollo a righe. I titoli dei temi assumevano significati contraddittori. La scelta dell’argomento era lo scalino più grande: letteratura, fantasia, attualità? Inevitabilmente sceglievo un titolo, svolgevo il tema e, una volta giunto alle conclusioni, mi accorgevo che, se avessi scelto, a caso, uno degli altri argomenti, me la sarei cavata senz’altro meglio. Spesso partivo per la tangente, scrivevo e scrivevo, raccontavo e commentavo, analizzavo e giudicavo fino a riempire le quattro facciate del foglio protocollo compiacendomi nel rileggere il manoscritto, se non che, andando a rileggere il titolo, mi accorgevo di essere andato totalmente fuori tema. Una tragedia. Non meglio andava in Latino. Ma poi, dico io, perché dobbiamo andare a risvegliare una lingua in disuso da secoli e secoli. Orazio, Cicerone, Tito Livio: ma parliamo in italiano! Non riuscirò mai a capire l’utilità pratica di saper declinare i vari rosa-rosae-rosarum, vis-roboris o la differenza tra ipse ed idem. Al massimo potremmo utilizzare un’etcetera oppure un omissis. E per questo dobbiamo soffrire come cani quando sappiamo che in classe ci aspetta la versione di Latino?
Inutile insistere, le materie letterarie non fanno per me. Sono sempre riuscito ad ottenere magicamente il minimo indispensabile per essere promosso, ma non ho ancora capito per mezzo di quale arcano stratagemma.
Amore ed odio erano i sentimenti contrastanti tra me ed il Francese o, meglio, con la zitellona di Francese. Alternavamo periodi idilliaci durante i quali sarei potuto diventare l’estimatore più fanatico degli scritti di Prevert (ovviamente in lingua originale), a contrasti furibondi, come quando non riuscivo a farmi entrare nella zucca i tre pasti principali della giornata normale di una famiglia Francese. Per punizione la zoppa, perché aveva anche una gamba più corta, mi fece scrivere per cento volte il menù completo: da le petit dejeuner (la colazione) a le diner (la cena) senza dimenticare, le dejeuner (il pranzo) con i rispettivi cafè-au-lait, potage, poisson, jambon (caffelatte, zuppa, pesce, prosciutto) ed altre pietanze delle quali feci una calligrafa indigestione.
Matematica, invece, faceva al caso mio. Ha da sempre fatto parte del mio bagaglio genetico. Con occhi dolci, la prof, c’intendevamo alla perfezione: una complice occhiata era spesso più che sufficiente. Bionda, occhi azzurri, piuttosto giovane, fisico minuto, di solito ben vestita, leggermente truccata: un bijoux. Chissà perché, ma le insegnanti di Matematica sono generalmente piuttosto attraenti! Ad ogni spiegazione espressioni, equazioni, sistemi di primo e secondo grado, uscivano dalle sue dita attraverso il gesso, si trasferivano sulla lavagna e la mia materia grigia se ne appropriava senza difficoltà di sorta. Riuscivo ad arrotondare le radici quadrate, a raddrizzare una linea spezzata e persino a rendere perspicace un angolo ottuso. Pitagora, Euclide, Eulero mi facevano un baffo. Era innegabile il mio interesse per tutto ciò che aveva a che fare con i numeri.
Il resto era tutto uno svago. Un artista vero, con tanto di scultura del Cristo in Croce vicino all’altare della chiesa, c’impartiva lezioni di Disegno e Educazione Artistica. Un capace creativo c’insegnava le Applicazioni Tecniche, un pianista cieco, le scale musicali, mentre l’Educazione Fisica e quella Religiosa erano lasciate praticamente al caso.
Il condensato di tutto ciò si riunirà, tra breve, attorno al tavolo nell’attesa che lo Zingaro somministri le portate di un menù fisso stabilito al momento della prenotazione.
Lo Zingaro ha pensato bene di riservarci un lungo tavolo ad angolo retto vicino alla siepe che separa il giardino del ristorante da quello della pizzeria di Doriano. Probabilmente ha reputato la zona meno rischiosa per gli altri avventori nel caso di eventuali nostre incontrollabili sortite.


…continua

sabato 23 luglio 2011

primo 1 di 3

la prima parte del primo capitolo

da giugno a settembre,vada,pro loco,spiaggia,terza media

Giugno ’72. Ridente località balneare al limite nord della Maremma Toscana. Una bellissima, immensa piazza, coronata da platani ed acacie secolari, è impreziosita da aiuole ben curate nelle quali risaltano fiori multicolori. Il busto bronzeo di Giuseppe Garibaldi sorveglia il paese dalla sommità di una stele di granito alta una decina di metri e, poco innanzi, il monumento ai caduti in candido marmo di Carrara a testimonianza del passaggio della Seconda Guerra Mondiale. A sinistra del busto una grande fontana allieta lo sguardo di paesani orgogliosi e di spensierati turisti con un alto zampillo che ricade in una vasca circolare a due piani, dove sguazzano pesci rossi e muggini degni di un acquario. Al crepuscolo giochi di luce di colore giallo, blu e rosso conferiscono allo zampillo una policromia che ravviva la già suggestiva fontana. La chiesa, dedicata a San Leopoldo, Granduca di Toscana, si erge austera all’estremità ovest della piazza dominandola e volgendo le terga alla Via del Mare, pellegrinaggio estivo di miriadi di villeggianti. In inverno tremilacinquecento abitanti il cui svago principale è di aspettare che venga l’estate. In estate, appunto, orde di turisti calano prevalentemente dall’hinterland Toscano, dal Nord Italia e oltre riempiendo vie, piazze, spiagge e negozi con la tipica allegria e spensieratezza della gens vacanziera. Un cinema all’aperto, una discoteca, alcuni bar, negozi di vario genere, due stabilimenti balneari, alberghi, pensioni, campeggi e pizzerie per lo più ad attività stagionale: il minimo indispensabile per una località di villeggiatura.
Le sette di sera. Manca meno di una settimana all’esame di licenza media. Doriano ha da pochi giorni terminato i routinari lavori di ristrutturazione che ogni anno precedono l’apertura del suo bar-pizzeria-tavola calda, preparandolo ad affrontare l’imminente stagione estiva. Precoci turisti, per lo più tedeschi in pantaloni corti color cachi e sandali di pelle che mettono in risalto gambacce varicose e lattiginose nonché piedi inguainati in calzini color topo, ordinano pizze e calzoni ai gusti più disparati. Salsicce, patate e cavolfiore. Gorgonzola, wurstel e melanzane. Frutti di mare, carciofi e cacio pecorino. Speck, mascarpone, cipolla e gli immancabili crauti. Birra a fiumi. Il forno scalpita e spalanca ansiosamente la bocca dalla quale s’intravedono lingue di fuoco smaniose per l’esordio stagionale.
I locali del bar e della pizzeria sono separati da un arco al quale sono appesi tramagli e vecchie reti, avuti in eredità da anziani pescatori locali, nei quali sono imprigionati inattendibili ma simpatici abitatori del nostro mare: due saraghi pizzuti, un’orata, un parago, tre o quattro stelle di mare un cavalluccio gigante, gusci di cozze, vongole e gangilli a iosa. I pesci sono rigorosamente di plastica, ma non sfigurano.
Sulla cappa del forno, in bella mostra, dominano due splendide valve di “nacchera” dal colore marrone rossiccio che sfuma in argento verso l’estremità più sottile. In mezzo alle valve della “nacchera” troneggia un’enorme margherita di mare arancione chiaro orgoglio di Lino-nero, il pescatore più simpatico. Un astice, dal tipico colore bruno-chicco-di-caffè-tostato, esibisce spavaldo le sue chele giganti e si arrampica sulla parete di fronte all’ingresso. Quadri e stampe di argomento marino sono appesi in ordine sparso sulle altre pareti.
Davanti al bancone del bar, vicino al frigo dei gelati, un juke-box tutto cromato, con la facciata di colore giallo e blu elettrico, dove le figure di due dischi 45 giri, umanizzati da un atteggiamento di ballerini di tip-tap, la fanno da protagonisti. È in perfetta forma ed attende impaziente di essere animato da cento lire sonanti, ricompensando con tre canzoni a scelta tra quelle del suo vasto repertorio.
All’esterno i tavoli sono piazzati sotto una pergola di vite americana e canne sottilissime efficace schermo per il sole, di giorno, o per l’umidità caratteristica di molte serate estive. Questo è il regno di Doriano, che zampetta qua e là tra pizze, coca cola e caffè, sempre col sorriso sulle labbra.
Due tipi ad un tavolo del bar, sotto il pergolato, ordinano un aperitivo. L’atteggiamento è quello giusto, anche se un po’ impacciato: jeans, cintura di tela, camicia aperta sul petto glabro, golfino di cotone attorcigliato alla vita, scarpe da ginnastica nuove-nuove ed immancabili occhiali scuri sulla testa. Barba, o meglio quel poco di peluria che c’è, appena rasata ed un profumino di Acqua Velva, gentile concessione del babbo, che è tutto un programma. Se non fosse che fanno poco più di 28 anni in due…
Doriano asseconda i giovanotti, ma non può trattenere un risolino sotto i baffi. Siamo noi. Due della terza “A” della Scuola Media Statale “Dante Alighieri”. Feo ed io. Amici inseparabili. Siamo compagni di classe fin dai tempi della Signora Zita, la nostra maestra della Scuola Elementare “Angiolo Silvio Novaro”. Feo s’incazza se lo chiamano Feo, ma io posso farlo. Stiamo aspettando il resto della banda, i nostri compagni della terza “A”. L’ultima cena o, per farla meno tragica, la cena di commiato prima dell’esame per la licenza media, è prevista per le otto al ristorante della pensione Edy gestita da Raimondo, detto lo Zingaro per le origini gitane, così si dice in giro, della sua famiglia.
Doriano ci porta due rigorosamente analcolici aperitivi da formula uno: rosso Ferrari. In ogni bicchiere una scorza di limone galleggia spavalda come una zattera gialla ai bordi della quale si abbarbicano velenosissimi coloranti come l’E-121 o il famigerato E-123 (quello del Rosso Antico, per intenderci). Una patatina, un’olivetta con lo stuzzicadenti, un sorso, un’altra patatina… che bello essere diventati grandi. Fino ad ieri Doriano ci avrebbe riso in faccia se le nostre richieste avessero oltrepassato il limite di un gelato ma oggi, eccoci qua, serviti e riveriti. Con tanto di portafoglio ricco di ben duemilacinquecento lire per poter discutere sul classico pago io…no offro io…
Clic-clic: C-8. L’indice di una mano esile danza sulla tastiera e seleziona sul juke-box I giardini di marzo di Battisti: le note si propagano discrete nell’ambiente circostante. I movimenti leggiadri delle dita affusolate carpiscono l’attenzione di uno dei due (che non è Feo).
I suoi occhi seguono il profilo delle unghie curate, della mano leggera sulla quale spicca un timido anellino ad adornare l’anulare. Polsi sottili, un braccialetto di corallini bianchi e rossi, leggerissima peluria bionda, quasi trasparente, sul braccio candido messo in risalto dalla manica corta della maglietta rossa. Un’onda leggera dei capelli castani, sottili come seta, è adagiata sulle aggraziate spalle di cui ricopre la parte superiore. Vita sottile, fianchi modellati e gambe slanciate in parte coperte da una gonnellina bianca corta, ma non troppo, stretta in vita da una cintura color corda a trama intrecciata.
Niente calze: “deve avere la mia età” – penso. Un metro e sessantotto, si e no. Un timido corpicino ancora coinvolto nel difficile processo di sviluppo che Madre Natura riserva agli adolescenti. Indossa scarpe da tennis, anch’esse bianche, con una piccola margherita disegnata su un lato. Il ginocchio sinistro, leggermente piegato, batte lievi colpi sul vetro frontale del juke-box, seguendo la melodia della canzone. Raddrizza la gamba, vi si appoggia e solleva armoniosamente il piede dell’altra gamba fino ad appoggiarne la punta sul pavimento riprendendo il ritmo dal punto in cui lo ha lasciato. Le scarpe sono nuove: la suola di gomma è quasi intonsa. Ora ha entrambe le mani appoggiate sulla cornice cromata del vetro superiore del juke-box, le dita arcuate in posa plastica, le braccia distese. Movimenti appena accennati del corpo assecondano la voce di Lucio Battisti e le note della canzone.  La testa minuta è china in avanti ed i capelli si muovono lievemente. Una ciocca scavalca la spalla sinistra, dietro la quale si nasconde, e copre a sua volta il già poco visibile volto. “Girati, per favore, ma che cosa ci sarà mai di tanto interessante sotto il vetro del juke-box.” – Vorrei dirle. Niente. Ha deciso di leggere i titoli delle canzoni di tutti i cartoncini colorati esposti in quella specie di rastrelliera.
Feo parla ininterrottamente dell’imminente cena con i compagni di classe, ma chi lo sente. Faccio cenno di sì con la testa, senza distogliere lo sguardo. Crede che io lo ascolti, ma per me è solo un fastidioso brusio: sta parlando praticamente da solo.
“Aspetta! Aspetta! Si sta voltando.”
Mi sembra di vedere la ripetizione di un gol al rallentatore. Con un movimento lieve ma deciso della testa si libera di una ciocca di capelli mostrando il faccino in tutta la sua radiosità. È vero, avrà più o meno la mia età. Mostra occhi grandi, castano chiaro, ciglia lunghe, il tutto armoniosamente incorniciato da sopracciglia ben marcate ma sottili. Nasino perfetto, piccoli denti bianchissimi fanno capolino dalle sottili labbra socchiuse. Un lievissimo rossore imporpora le guance magre conferendo al colorito pallido del viso, non ancora violato dall’abbronzatura estiva, una luminosità angelica. Un’impronta impercettibile di efelidi sul naso è come la classica ciliegina sulla torta. Bellina. Molto bellina. Una bambolina.
Ed io? Inebetito come un cammello senz’acqua in mezzo al Sahara: labbro inferiore sporgente, salivazione azzerata ed occhi a palla. Con quattordici anni di ormoni scalpitanti tenuti a freno da briglie di carta velina, cerco le parole giuste per rompere il ghiaccio, senza turbare l’atmosfera che si è creata (anche se, forse, solo nel mio immaginario).
Non sono mai stato un campione nell’approccio. Finora, nelle precoci occasioni in cui abbiamo fatto i cascamorti con ragazzine alla nostra portata, è stato compito di Feo. È lui il più sfacciato dei due. Quando ci proviamo con due tipe lui attacca bottone e poi…avanti insieme. Ma questa volta no, devo fare da solo. Lui non c’entra niente. Troppo carina, troppo graziosa, troppo delicata, troppo dolce, troppo attraente, troppo… troppo… troppo… troppo e basta.
Vediamo… vediamo: “Ciao, come ti chiami?”. No è banale. “Buonasera signorina…”. Troppo antiquato. “Posso offrirti qualcosa?”. Figurati, che gli offro a quest’ora un gelato? Noooo! “Ti piace Battisti!?!”. Che stupido! È ovvio che le piaccia Battisti, ha selezionato lei la canzone. “Come sei carina…”. Troppo diretto. “Sei da sola?” Niente da fare, non mi viene niente di adeguato. Accidenti! Come farebbe Feo? Ad un tratto…
Mi alzo, stringo in vita il nodo del golfino, il rosso Ferrari nella mano sinistra, perfetto…
il carretto passava e quell’uomo gridava: gelati…
«SEME, NOCCIOLINE, CARAMELLEEE…..»
È lui, non può essere che lui, l’inopportuno per eccellenza. È una canzone così dolce, una colonna portante della musica italiana, un’atmosfera quasi irreale, una favola che diventa realtà e la mia Biancaneve lì, a meno di tre metri di distanza. Il tutto rovinato dallo scemo del villaggio. Flipper. Ci mancava solo lui.
In realtà non è scemo, è solo che arriva sempre nei momenti meno opportuni con le battute meno azzeccate. È come un bruscolo in un occhio. Un capello nella minestra. La pioggia quando hai lavato il motorino. Il colpo di vento quando stai per afferrare il pennacchio del calcio-in-culo. È lo starnuto, quando premi il grilletto per colpire un bersaglio al tiro-a-segno del Luna Park. È il sassolino nella scarpa, quando stai per calciare il rigore della finale della Coppa dei Campioni. È la puntina da disegno che ti fora la ruota della bicicletta, quando stai per vincere la Milano-Sanremo. È l’acqua della doccia che diventa gelata, mentre sei ancora insaponato da capo a piedi. Flipper è tutto questo e anche di più. Ma in fondo, ma molto in fondo, è un bravo ragazzo. Fosse anche cattivo…
La cosa più incredibile è che non è neanche in classe nostra, non è invitato alla cena, non ci combina proprio niente. Che cosa ci fa a quest’ora, proprio qui? Dovrebbe essere a casa sua, a cena, come tutte le sere.
Lo fulmino con lo sguardo, ma lui avanza con l’incedere impetuoso che caratterizza la sua vitalità, la sua continua allegria e la sua smania di essere al centro dell’attenzione a tutti i costi, in qualunque occasione. Mi travolge, mi abbraccia. Faccio appena in tempo ad appoggiare il bicchiere sul tavolo scongiurando la macchia di rosso Ferrari su camicia e calzoni. Mi trascina verso Feo, che è ancora seduto, ed abbraccia anche lui, quasi cadiamo per terra. Ci stropiccia, ci strapazza.
«Flipper ma che fai, ci siamo visti solo ieri sera» – lo apostrofa Feo – «Un po’ di contegno. Siamo in un locale pubblico. Misura il tuo entusiasmo».
Feo che fa il distaccato con Flipper, gli fa la morale e cerca di calmarlo è l’ultima stranezza che mi aspettavo. Va bene. È una serata particolare, siamo diventati adulti, ma non per questo rincoglioniti. La sera precedente, cui Feo fa riferimento, eravamo tutti insieme a giocare a nascondino in piazza della chiesa. C’erano anche Massimo, Luca, Antonio, Roberto, Mimmo e altri. Una quindicina in tutto e proprio Feo, per nascondersi, si è arrampicato sulla cima dell’albero più alto della piazza intonando L’isola ideale dei Nomadi. Ed ora fa il distaccato.
Mi riprendo dall’uragano Flipper appena in tempo per notare che la mia fatina ha lasciato il juke-box, raggiungendo la famiglia al tavolo più lontano, sotto il pergolato, vicino all’ingresso. Un piccoletto, probabilmente il fratellino di quattro o cinque anni, è seduto di fronte a lei e fa i capricci per mangiare la sua pizza, ma la mamma lo imbocca amorevolmente, laddove il babbo controlla compiaciuto la situazione. Un quadretto di famiglia ideale. Non sembrano Tedeschi, ma non sono neanche del posto. Il paese è talmente piccolo che li conoscerei. Forse Fiorentini, Pisani, Milanesi, Torinesi. Boh! L’unica certezza è che, per colpa del guastafeste, ho perduto l’occasione di conoscerla. E pensare che ero così vicino. E ora? Non ho altre possibilità. Non ritornerà mai più al juke-box.Mi consola il pensiero che abbia escogitato il pretesto di selezionare una canzone per avvicinarsi a me. A me o a Feo??? Il dubbio atroce rosica la mia mente come un tarlo in un mobile del seicento.


…continua

sabato 1 gennaio 2011

La mia presentazione

Intanto, gustatevi la presentazione dell’autore… a breve e a puntate, l’intero romanzo “da giugno a settembre”.

Presentazione dell’autore
  
Il contenuto di questo, chiamiamolo, romanzo non è totale frutto della mia fantasia. Ho preso le basi da reminescenze di quando, quattordicenne, ero protagonista della vita del paese di residenza, ho usufruito della prima serata da “adulto” ed ho fatto gli esordi nel mondo del lavoro. I luoghi in cui si svolge la vicenda e molti dei personaggi che ne sono protagonisti sono spesso riconducibili alla realtà tuttavia ho dato fondo alla mia fantasia per ambientarli e farli muovere in quello che è stato il regno della mia infanzia e della mia adolescenza. Ricordo volentieri, e con un po’ di nostalgia, gli episodi che hanno caratterizzato l’estate in questione e mi sono divertito a stravolgerli fino a svilupparli presuntuosamente in venti capitoli che mi auguro non ti annoino. Chiunque si riconosca in queste pagine, per favore, faccia finta di niente e sappia che, qualsiasi interpretazione egli dia a questo scritto, non è stata mia intenzione recare offesa a nessuno, in particolar modo alle persone che mi sono state più vicine in quel periodo favoloso.
Mai e poi mai mi sarei sognato, in passato, di prendere l’impegno di scrivere più di trecento pagine di seguito: l’italiano ed io abbiamo un conto in sospeso fin dalle elementari e niente potrà mai appianare le nostre divergenze. Un bel giorno di qualche tempo fa, senza un motivo apparente, mi sono trovato a tempestare di battute una tastiera che trasferiva sul monitor parole e frasi in sequenza fino a generare quello che, pretenziosamente, adesso considero il primo capitolo del mio, ridiciamo così, romanzo. Le parole si susseguivano sul monitor a velocità supersonica e mi stupivo della facilità con cui riempivo le pagine di Microsoft Word. Il tutto è volato fuori della tastiera del computer come una colomba dal nido in una mattinata tiepida di primavera ed è stato semplicissimo salvarlo sulla mia cartellina dell’hard disk, prima con titoli ingannevoli, allo scopo di distogliere chiunque avesse provato la curiosità di ficcarci il naso, e finalmente da giu a set, con l’abbreviazione del titolo definitivo. Dopo il primo, il secondo capitolo è stato uno scherzo, il terzo è venuto automaticamente e così via finché non ho chiuso la parentesi di quell’estate a dir poco entusiasmante (e non vi dico come, per non anticipare il finale).

Mi chiedo se mai avrò il coraggio di farmi avanti con qualcuno di veramente competente in materia per scoprire l’effettivo valore di questo scritto, ma una cosa è certa: la soddisfazione personale di aver messo su carta una parte della mia vita, pur volontariamente fiorettata da episodi di genuina fantasia, mi rende estremamente felice, pur consapevole di non aver fatto niente d’importante.

Ti prego, chiunque tu sia, un amico, un parente, un conoscente o un semplice sconosciuto, di non considerarmi un presuntuoso: ho solo dato sfogo ad un impeto di cui non mi so dar ragione.

Ho stampato queste pagine da uno dei computers sui quali metto le mani, attraverso una delle stampanti che vi sono installate: laser o a getto d’inchiostro non ha importanza. Poi lo ho rilegato artigianalmente e lo sottoporrò all’esame di chi avrà voglia di darmi soddisfazione, con preghiera di restituirmelo in ogni caso, qualunque sia il giudizio, in quanto esemplare unico. Poi vedremo. Forse lo rileggerò, da vecchio, magari sul divano, di fianco alla mia adorata, prendendomi in giro per il tempo sprecato a comporre questa cosa. Ma forse no! Ebbene: non lo considero per nulla tempo sprecato ed è in questo contesto che ti esorto, o lettore, ad avere la pazienza di arrivare fino in fondo, prima di emettere un parere, che sia pur severo.

Grazie per la pazienza.
  
P.S.:     Ah! Dimenticavo. Ogni scritto che si rispetti, specialmente quello di esordio, deve essere dedicato a qualcuno ed io non posso certo essere da meno. Dedico questa “cosa” a coloro che hanno avuto un’importanza fondamentale nella mia vita di bambino, di ragazzo, di adulto e di… un po’ più che adulto. Loro lo sanno.